2020 Comunicati  22 / 04 / 2020

Un’opera fondamentale

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 40/20 del 22 aprile 2020, San Caio
 
Un’opera fondamentale
 
Approfittiamo della quarantena forzata per leggere o rileggere dei libri fondamentali per la formazione del buon cattolico: tra questi vi sono i cinque volumi, in sette tomi, della “Storia Sociale della Chiesa” scritta da mons. Umberto Benigni. Segnaliamo ai lettori le prefazioni di don Francesco Ricossa ai diversi volumi.
 
Prefazione al primo volume (in due tomi)
Il “Centro librario Sodalitium” ha deciso di ristampare “Storia sociale della Chiesa”, la principale opera di Mons. Umberto Benigni. Si tratta, per i nostri limitatissimi mezzi, di un impegno gravoso, di cui andiamo però orgogliosi, e che speriamo di riuscire a portare a termine con il contributo e l’aiuto dei nostri lettori. Cominciamo a pubblicare infatti, per il momento, il primo dei sette volumi che compongono l’opera di una vita di Mons. Benigni, ovvero del principale collaboratore di Papa San Pio X nella lotta contro il Modernismo. “Storia sociale della Chiesa” fu pubblicata dall’editore milanese Vallardi dalla fine del 1906, quando il giovane prelato entrò a far parte della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, fino al 1933, interrotta solo dalla morte dell’autore, a Roma, il 27 febbraio 1934.
Alla fine del nostro lavoro di riedizione, contiamo di pubblicare, come allora, sette tomi, così strutturati:
vol. 1: La preparazione. Dagli inizi a Costantino. (Edizione del 1906)
vol. 2: Da Costantino alla caduta dell’Impero romano. Tomo I (1912) e Tomo II (1915).
vol. 3: La Crisi della società antica. Dalla caduta alla rinascita dell’Impero romano (1922)
vol. 4: L’Apogeo. Tomo I (1922), Tomo II (1930)
vol. 5: La crisi medievale (1933).
Nel piano dell’opera, l’Autore si proponeva di trattare di sette periodi della storia della Chiesa; non ha avuto modo, pertanto, di pubblicare due volumi, quelli relativi al sesto periodo (epoca moderna, periodo dell’Antico Regime, dalla Riforma alla Rivoluzione 1517-1789) e al settimo periodo (epoca moderna, periodo della Rivoluzione, dalla rivoluzione francese a oggi).
Si chiederà allora il lettore che senso abbia ripubblicare oggi, nel XXI secolo, un’opera iniziata più di un secolo fa, e per giunta incompiuta, attinente a una materia, la storia, che al contrario della teologia o della filosofia, scienze speculative, è calata nel contingente, e nel continuo approfondimento delle fonti.
Il fatto è che la “Storia sociale della Chiesa”, come tutte le grandi opere, è ancora attuale ai nostri giorni. L’attualità di questa opera non è dovuta al ruolo, pur importante, svolto da Mons. Benigni nel mondo accademico (tenne la cattedra di Storia ecclesiastica nel Collegio Urbano di Propaganda fide, nel Seminario Vaticano, nella Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici e nel Collegio Romano o Apollinare, che diverrà la Pontificia Università Lateranense, contando tra i suoi allievi dei Papi e numerosi cardinali, e persino il Buonaiuti): quanti illustri docenti di ieri sono oggi totalmente dimenticati! Alla cultura universitaria e accademica, il nostro autore poteva unire, cosa non comune, l’esperienza dell’uomo di governo (avendo lavorato in segreteria di Stato), la verve del giornalista, la fede del sacerdote, l’acume poliziesco del creatore della moderna intelligence vaticana, e chi più ne ha, più ne metta: quante personalità in un sol uomo…
Mons. Benigni si proponeva di contribuire, nel campo della storia ecclesiastica, alla realizzazione del programma del pontificato di san Pio X: “restaurare tutto in Cristo”, e questo particolarmente nello studiare quello che egli chiama l’ “Impero della Chiesa”, ovverosia l’influenza della Chiesa nella vita sociale dell’umana civiltà. La sua era allora – e lo resta ancor oggi – un’opera estremamente moderna, cosa (apparentemente) paradossale in un dichiarato antimodernista. Moderna nel proporre non un manuale di storia ecclesiastica, come ve n’erano tanti, ma una storia “sociale” della Chiesa: dal punto di vista cioè dell’influenza della Chiesa nella vita politica, etico-giuridica ed economica della società. Moderna, nell’accogliere pienamente il metodo critico nella storia anche ecclesiastica, sicuro che una sana critica storica non sarebbe mai stata contro la Chiesa e la verità, ma a suo favore (seguendo così la linea tracciata dal suo Vescovo a Perugia, Gioachino Pecci, divenuto Pontefice col nome di Leone XIII: un giovane Umberto Benigni, fin dal 1888, auspicò e perorò presso Mons. Foschi, Vescovo di Perugia, lo svecchiamento degli studi ecclesiastici). Moderna, infine, nello stile inimitabile, ironico e arguto, dell’autore.
Emile Poulat, storico e biografo di Mons. Benigni, qualificherà la sua storiografia come “critica”, “sociale” e “realista” (Catholicisme, démocratie et socialisme, Casterman, 1977, p. 184). Benigni non esitò a servirsi nella sua analisi storica di tre coefficienti presi in prestito a un avversario dichiarato, e riconosciuto come tale, Hippolyte Taine: la razza, l’ambiente e il momento, rifiutando ovviamente il razionalismo e il determinismo dell’autore francese. Il realismo pessimista sulla natura dell’uomo di Mons. Benigni, l’opposto delle utopie di Rousseau, scandalizzò lo studente Ernesto Buonaiuti, futuro capofila del modernismo italiano, come racconta lui stesso nell’autobiografico “Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo”: “C’era del nerissimo pessimismo nella concezione ecclesiastica di questo prelato che la curia avrebbe chiamato alla Segreteria di Stato proprio nel fitto più scuro e tragico della crisi modernistica.
C’era forse da sperare qualche cosa di buono dal progresso della società umana e dalla evoluzione degli spiriti? Ricordo come ora. Un giorno che dopo la lezione io accompagnai, come mi era divenuto consueto di fare, il Benigni verso la sua dimora, e prendendo lo spunto dall’argomento che egli aveva poco prima trattato dalla cattedra, lo sviluppo cioè della letteratura apologetica nel secondo secolo cristiano, mi ero permesso di osservare come fosse necessario riprendere i vecchi motivi dell’apologetica cristiana, di fronte a un mondo che nella divulgazione dei principi democratici si accingeva ad aprire una nuova, luminosa epoca nella storia della civiltà mediterranea.
Il Benigni, fissandomi in viso con le sue pupille nerissime, in atto di sarcastico disdegno per i miei voli di speranza e di ottimismo, scandì, con la sua lieve balbuzie, questo tremendo aforisma: ‘Mio buon amico, credete proprio voi che gli uomini siano capaci di qualche cosa di bene nel mondo? La storia è un continuo e disperato conato di vomito, e per questa umanità non ci vuol altro che l’Inquisizione!’. Rimasi esterrefatto. (…) questo fosco e macabro verdetto del mio professore ecclesiastico mi avrebbe dovuto trattenere dal procedere ulteriormente sul sentiero che conduceva all’ordinazione sacerdotale e al sacrificio dell’altare…”. Così commentò le parole del suo professore il Buonaiuti, che avrebbe fatto meglio – per sé, per la Chiesa e per il mondo – a seguire quell’ispirazione rinunciando all’ordinazione.
Eppure Benigni, che non credeva nell’uomo, credeva in Dio, e la sua storia sociale della Chiesa lascia al lettore la ferma – e anche entusiasmante – convinzione del bene immensoche la religione cristiana e la Chiesa Cattolica, con tutte le sue solide istituzioni, hanno portato non solo alle anime e alla vita sovrannaturale (il ‘Regno della Chiesa’) ma anche a tutta l’umana società (l’‘Impero della Chiesa’) e a una vera civiltà. Forte di questa convinzione, Umberto Benigni, da tanti giudicato arido e cinico, seppe lottare tutta la vita per il Regno sociale di Cristo e della Sua Chiesa, rinunciando per questo ideale, lui che idealista non era, ma realista, a ogni bene terreno, agli onori e alla fama, a ogni stima, a ogni prospettiva mondana e di carriera, non solo presso il mondo ostile alla Chiesa (va da sé) ma anche e soprattutto, dopo la fine del pontificato di San Pio X, nello stesso mondo ecclesiastico.
In mezzo a mille occupazioni e mille battaglie, Mons. Benigni non dimenticò mai questa sua opera storiografica che ne illustra ancor oggi la vita e il pensiero: pensiamo di fare omaggio a lui, nel pubblicarne le pagine, e di fornire a tutti coloro che ancor oggi, seguendone le orme e quelle di San Pio X, vogliono restaurare ogni cosa in Cristo, uno strumento efficace di lavoro e di riforma intellettuale.
Prefazione al terzo volume
Dopo la pubblicazione dei primi due volumi nel 2016 e nel 2017, con la presente pubblicazione, arriviamo nel 2018 al terzo volume dell’opera di Mons Benigni. Il legame indissolubile tra un’opera e il suo autore, rende se non necessario almeno utile aggiungere qualche informazione sulla vita di Mons. Benigni nel periodo in cui diede alle stampe il presente volume, ovverosia corrente l’anno 1922.
Erano passati sette anni dalla pubblicazione del tomo precedente (era il 1915) e molti avvenimenti decisivi avevano segnato la storia dell’umanità, della Chiesa e del nostro autore. Prima di tutto, la Grande guerra, le cui conseguenze durano fino ad oggi, con i suoi problemi irrisolti. Poi, nella Chiesa, il pontificato di Benedetto XV – durato dal 1914 al 1922 – che segnò una svolta nella politica ecclesiastica abbandonando di fatto la lotta antimodernista del suo predecessore San Pio X.
La guerra aveva sospeso le attività del Sodalitium Pianum, privato del suo alto protettore, San Pio X; riattivato nel 1915 con l’approvazione del cardinal De Lai, ma rimasto forzatamente inoperoso, fu sciolto nel 1921 dopo la campagna diffamatoria iniziata durante la guerra grazie a un colpo di mano dei modernisti e democratico-cristiani tedeschi, e giunta al successo grazie all’appoggio del Segretario di Stato, il Cardinal Gasparri. Mons. Benigni è occupato in quegli anni, pertanto, oltre all’insegnamento alla Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici, nella difesa della memoria del Sodalitium, battagliando contro Padre Rosa, della Civiltà Cattolica, coadiuvato in questo compito dal confratello francese del Sodalitium, l’abbé Boulin, dalle pagine della RISS (Revue internationale des Sociétés Secrètes) e con la pubblicazione degli studi storici sui Gesuiti a firma “I. de Récalde”. In Italia, Mons. Benigni coadiuva Don Paolo de Toth su Fede e Ragione (che iniziò le pubblicazioni nel 1920), con la pagina politica Note internazionali.
Messo ai margini del mondo ecclesiastico, collaborò non solo alla stampa cattolica integrale, come Fede e Ragione, ma anche in maniera occasionale a quella laica, come la Nuova Antologia e La Ronda. Dopo l’anno terribile dello scioglimento del Sodalitium Pianum, il 1922 è quello della lenta ma sicura riorganizzazione dell’opera “discreta” di Mons. Benigni. Il 1922 si concluse con due avvenimenti importanti per il periodo successivo dell’attività controrivoluzionaria del Benigni: la marcia su Roma del 28 ottobre e la pubblicazione della prima enciclica – programmatica – del nuovo Pontefice Pio XI: Ubi arcano (23 dicembre). Mons. Benigni, studioso di storia ecclesiastica e, nel contempo, uomo d’azione, troverà nel travagliato passato bizantino-barbarico della crisi dell’Impero romano, dalla sua caduta alla sua rinascita, le lezioni per agire nel nuovo scenario che la Provvidenza preparava per la società civile e quella ecclesiastica, sempre al servizio, ovviamente, della Regalità di Cristo e dell’Impero della Chiesa.
Prefazione al quarto volume (in due tomi)
Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi. La società trasse da tale ordinamento frutti inimmaginabili, la memoria dei quali dura e durerà, consegnata ad innumerevoli monumenti storici, che nessuna mala arte di nemici può contraffare od oscurare. Il fatto che l’Europa cristiana abbia domato i popoli barbari e li abbia tratti dalla ferocia alla mansuetudine, dalla superstizione alla verità; che abbia vittoriosamente respinto le invasioni dei Maomettani; che abbia tenuto il primato della civiltà; che abbia sempre saputo offrirsi agli altri popoli come guida e maestra per ogni onorevole impresa; che abbia donato veri e molteplici esempi di libertà ai popoli; che abbia con grande sapienza creato numerose istituzioni a sollievo delle umane miserie; per tutto ciò deve senza dubbio molta gratitudine alla religione, che ebbe auspice in tante imprese e che l’aiutò nel portarle a termine. E certamente tutti quei benefìci sarebbero durati, se fosse durata la concordia tra i due poteri: e a ragione se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori, se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchinati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa. Si deve infatti attribuire il valore di legge eterna a quella grandissima sentenza scritta da Ivo di Chartres al pontefice Pasquale II: “Quando regno e sacerdozio procedono concordi, procede bene il governo del mondo, fiorisce e fruttifica la Chiesa. Se invece la concordia viene meno, non soltanto non crescono le piccole cose, ma anche le grandi volgono miseramente in rovina”
Con queste celebri parole Papa Leone XIII – il vescovo di Umberto Benigni a Perugia, il Pontefice che lo chiamò a Roma – descriveva la Cristianità nell’enciclica del 1 novembre 1885, Immortale Dei. Il programma di San Pio X – il Papa di cui Mons. Benigni fu fedele collaboratore – era di restaurare questa civiltà cristiana della quale parlava il suo predecessore: “No, Venerabili Fratelli – bisogna ricordarlo energicamente in questi tempi di anarchia sociale e intellettuale, in cui ciascuno si atteggia a dottore e legislatore -, non si costruirà la città diversamente da come Dio l’ha costruita; non si edificherà la società, se la Chiesa non ne getta le basi e non ne dirige i lavori; no, la civiltà non è più da inventare, né la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita, essa esiste; è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Si tratta unicamente d’instaurarla e di restaurarla senza sosta sui suoi fondamenti naturali e divini contro gli attacchi sempre rinascenti della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: “omnia instaurare in Christo” (Enciclica Notre charge apostolique, 25 agosto 1910).
La civiltà cristiana, la civiltà cattolica è già esistita: deve essere solamente continuamente restaurata. In questo volume, Mons. Benigni ne descrive l’apogeo, dal IX al XIV secolo. Certo, lo spirito disincantato e realista del nostro Autore non idealizza neppure il periodo medioevale, ovverosia l’apogeo della Cristianità: ne descrive anzi le insidie dei malvagi e le debolezze dei buoni, le continua lotte della Chiesa coi suoi nemici, non ignora il lavoro sotterraneo delle eresie e di Israele, del bizantinismo che diventa, in Occidente, Ghibellinismo, e degli altri fattori che porteranno alla crisi del modello medioevale.
I due tomi che compongono il presente volume, il quarto di un’opera che ne prevedeva nove, sono stati scritti a ben sette anni di distanza: il primo tomo, infatti, è del 1922 (quando fu pubblicato quindi il volume precedente, il terzo della serie), mentre il secondo tomo è del 1929. Il 1922 quindi (di cui abbiamo parlato nell’introduzione al volume III) fu un anno particolarmente fecondo per la Storia sociale della Chiesa. Un prezioso articolo non firmato (ma dell’abbé Boulin, il braccio destro, in Francia, del Sodalitium pianum) ci svela i progetti del Monsignore umbro in quel periodo, riguardo all’opera che ristampiamo: “Poiché la guerra ed il Pontificato di Benedetto XV avevano impresso agli avvenimenti un corso ben diverso, Mons. Benigni ne approfittò per rinchiudersi in un semi-ritiro studioso. In esso si sforza di portare a compimento il monumento promesso a tutti coloro che hanno potuto apprezzare il suo magistero: questa Storia sociale della Chiesa che fin dal principio si manifesta come un geniale saggio di storia politica del cattolicesimo. L’autore sembra avervi condensato tutto i tesori di una lunga esperienza negli affari contemporanei, di una immensa capacità di lettura, di uno studio delle fonti rinnovato dall’originalità dei punti di vista e dalla profondità dello studio. Le intelligenze più competenti non esitano a salutare, in questo storico così tradizionale nello spirito e così ardito nei metodi, una sorta di Macaulay ecclesiastico, scrittore dalla verve acuta, analista penetrante di figure e gruppi sociali, che eccelle nell’evocarli sulla scena del mondo” (Les Juifs et le Catholicisme d’après l’Histoire sociale de l’Eglise de Mgr Umberto Benigni, in Revue Internationale des Sociétés Secrètes, 1922, anno II, fascicolo VI, p. 735, con una biografia dell’autore e gli estratti dell’opera concernenti Israele). Purtroppo, gli entusiasmi del 1922 non ebbero seguito, e la Storia sociale, come detto, completò il IV volume solo nel 1929. Purtroppo… o per fortuna! Per fortuna, in quanto Mons. Benigni uscì presto dal “semi-ritiro studioso” (se mai esistette nella vita del vulcanico prelato) per riorganizzare il disciolto Sodalitium pianum sotto nuove sembianze: non più un ente ecclesiastico, bisognoso dell’approvazione della Chiesa (era ormai divenuto impossibile sperarla) ma una Intesa romana per la Difesa Sociale (IRDS), fondata nel 1923 che, non essendo un gruppo costituito ma un semplice mezzo d’informazione, aveva lo scopo di collegare e, appunto, informare, tutti coloro che in qualche modo potevano opporsi alla Rivoluzione, anche se non necessariamente cattolici. Fu così che il 1924 vide la creazione del bollettino Veritas, dell’agenzia Urbs (che dal 1928 divenne casa editrice) e del mensile Romana. La Difesa Sociale collaborava con il mondo intero: Mons. Benigni riceve informazioni e a volte visita chi lotta per la “difesa sociale” in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia, in Svizzera, in Germania, nel Québec e in Romania, in Spagna e in Egitto… e si preoccupa di informare lo stesso Governo italiano (il ministero degli Esteri, dal 1923 al 1928, e quello degli Interni a partire dal 1927). Soprattutto dal 1926 al 1929 infuria la polemica, che potremmo dire mortale, e non senza colpi bassi, tra i gesuiti della Civiltà Cattolica (Padre Rosa) e Mons. Benigni, sullo sfondo dell’affare dell’Action Française e del Fascismo, polemica che non sfuggì all’occhio acuto di Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere. Il 1929 segnerà una svolta per tutti: il Concordato tra l’Italia e la Santa Sede avrà le sue conseguenze nel mondo cattolico integrale, con la rottura tra i francesi (contrari all’accordo) e gli italiani, e la chiusura, dopo dieci anni di pubblicazioni, della rivista Fede e Ragione di don Paolo de Toth. Il 30 marzo 1930, Mons. Benigni, nec spe nec metu (secondo il suo motto assunto quando divenne protonotario apostolico) scrisse: Oggi finisco 68 anni. Che Via Crucis!
Gli resteranno meno di quattro anni da vivere (e un ultimo volume della Storia sociale da pubblicare).
Prefazione al quinto volume (in due tomi)
Con la pubblicazione di questo quinto volume della “Storia sociale della Chiesa” il nostro piccolo Centro Librario è giunto al termine di una grande impresa: mettere nuovamente a disposizione del pubblico cattolico la gigantesca opera di Mons. Benigni, che tanta parte ebbe nella vita di questo fedele collaboratore di San Pio X.
Di questo fatto rende testimonianza la lapide che orna – nel cimitero della natìa Perugia – il sepolcro del prelato umbro, dove sta difatti scritto:
Nec spe nec metu
S.E. Mons. Umberto Benigni
Protonotario apostolico partecipante
Autore della Storia Sociale della Chiesa
Sottosegretario durante il Pontificato di Pio X
della Congregazione per gli Affari EE. SS.
Perugia 30 marzo 1862 Roma 27 febbraio 1934
“Autore della Storia Sociale della Chiesa”: tanta importanza, dunque, ebbe quest’opera, da essere ricordata sulla tomba del suo Autore; opera di una vita, infatti, giacché l’iniziò nel 1906, e la concluse, senza concluderla, pochi mesi prima della morte, nella Pasqua del 1933 (che quell’anno cadeva il 16 aprile). Con il bollettino Veritas e la rivista Romana, che uscirono ancora, per l’ultima volta, nel dicembre 1933, questo quinto volume della Storia Sociale rappresenta gli ultimi scritti di Mons. Benigni.
L’ultimo volume pubblicato era quello del 1929, dedicato anch’esso, come il volume che avete tra le mani, al Medio Evo. Per accompagnare questo quinto volume dobbiamo quindi tratteggiare gli ultimi quattro/cinque anni di vita del suo autore. Non sono anni facili (e non solo per l’età e la salute): i principali cardinali del pontificato di san Pio X sono morti (il card. De Lai nel 1928, il card. Merry del Val, in maniera sospetta, nel 1930; restava il card. Boggiani che non succederà però a Pio XI e morirà nel 1942) e l’influenza sul Papa del nemico acerrimo di Mons. Benigni, il direttore della Civiltà Cattolica, Padre Rosa, è preponderante. Le divergenze sulla “Conciliazione” che proprio nel 1929 mette fine alla “Questione Romana”, interrompe la collaborazione tra Mons. Benigni ed il gruppo francese dell’abbé Paul Boulin († 1933). L’uno e l’altro però, vecchi sodali del Sodalitium pianum, vivono lo stesso stato d’animo: siamo “fucilati, mitragliati, bombardati dagli uni – scrive Mons. Benigni su Romana nel dicembre 1928 – abbandonati o astutamente sabotati dagli altri”; “Il nemico – scrive a sua volta Boulin nel 1933 – ovverosia, in faccia a noi, il Giudaismo cosmopolita; sui fianchi le Sette che ci incalzano; alle nostre spalle il grosso delle truppe cattoliche, infestate anch’esse dai veleni umanitari, democratici, pacifisti e internazionalisti, e all’avanguardia delle quali non tiriamo più che come reparti sacrificabili (enfants perdus), fucilati alle spalle”.
Ma il migliore commento storico alla pubblicazione di quest’ultimo volume della “Storia sociale”, che ci disvela sia gli intenti dell’autore della “Storia sociale” sia il suo intimo stato d’animo, lo troviamo nel carteggio tra Mons. Benigni e Mons. Michele Faloci Pulignani (1856-1940), confratello, storico e amico umbro del nostro autore, carteggio conservato ancor oggi nella Biblioteca comunale di Foligno.
Il 7 luglio 1929 VII°, terminato il precedente volume, scrive: “Ho domandato a Vallardi (l’editore) di mandarle in omaggio il mio VI° tomo, d’imminente pubblicazione, perché Ella voglia farne una recensione. Col boicottaggio camorristico che mi circonda debbo domandare alle mosche bianche di far sapere al pubblico che noi non siamo infecondi nello studio della civiltà cristiana. Un caso recente ha mostrato come si riesca a far ignorare una pubblicazione che ha dedicato i primi tre volumi agl’intimi rapporti tra il cristianesimo e l’impero romano. Alla mia età e dopo un diluvio di rospi di tutte le dimensioni che ho ingoiato in mezzo secolo, me ne stroppiccio altamente della réclame e della sua degna figlia la fama; ma la Causa vuole che non si sciupi il lavoro fatta per essa”. Il 12 luglio dello stesso anno: “Evviva il buonumore, vino della vita; evviva la buona amicizia, companatico della sullodata. (…) Scrivo subito al cav. Fioroni perché voglia mandarle i due tomi precedenti (della Storia Sociale). (Ella saprà che io non dispongo di nulla nella pubblicazione). Mi stroppiccio per conto mio personale della réclame, anche se fatta ad un onesto coscienzioso lavoro, perché ho il vomito della vita e della sua cara società. Se fossi per virtù quello che sono per filosofia, potrei guardare confidente il Crocifisso; ma conto sulla sua infinita misericordia che mi perdoni il mio filosofico vanitas vanitatum che involge uomini e cose. Ecco una confessione ad uno dei pochi che può capire, giacché, salva la sua virtù cristiana, credo che anche Lei abbia in pietoso disprezzo questa vita boiaccia. (…) Faccio una durissima vita di lavoro e di amarezze; oramai sono mitridatizzato; ma non è una vita gaia, il s’en faut!”.
Nella lettera del 30 marzo 1930 se la prende con lo storico tedesco Gregorovius (1821-1891): “La ricostruzione critica del – più che calunniato – fraintesissimo medioevo, esigerebbe l’intera vita di un grande storico. Quindi io che non ho quella a disposizione, e non sono questo, ho dovuto contentarmi di tracciare qualche linea costruttiva. Veramente, in arduis voluisse sat est. Certo, per la Chiesa e per la Patria come per la scienza, quella ricostruzione è uno dei punti basilari. Generazioni d’italiani abbrutiti dal ghibellinismo massonico, hanno giurato in verba Gregorovii, il grosso urangutano che non ha nulla capito del medioevo e di Roma. Il fenomeno Crivellucci (1850-1914, storico e anticlericale) riassumerà la situazione. Oggi finisco 68 anni: che Via Crucis!”.
“Sono arrivato a San Francesco, cioè a Faloci Pulignani Mons. Michele. (…)
Naturalmente, io debbo trattare di San Francesco e del Francescanesimo dal punto di vista sociale, ma anche qui (elementi spirituali della crisi medioevale) voglio dare una speronata ai sabatierani ed altri modernisti. (…) che se don Basilio ci separa, san Francesco ci unisce. Grazie infinite fin d’ora. Come va? Io tiro il carretto dei miei cominciati settant’anni. Tir’à campà, lo spettacolo è interessante!” (senza data, circa aprile 1931).
L’ultima lettera, di un uomo sempre più stanco, è del 20 febbraio 1932, a due anni dalla morte: “Monsignore carissimo, Rispondo prontamente alla cara sua del 9 giugno 1931… faccia tosta, eh; ma più che faccia tosta, è la durissima vita che mi trascina a queste distanze. Mi reggo e lavoro, per smaltire quello che altrimenti rovinerebbe l’insieme; ma non ne posso più. Creda: taedet animam meam vitae meae. Comprenda e compatisca. Ricevetti tutto in tempo da Lei e da Roma; e gliene sono immensamente grato. Ora sono proprio a San Francesco, e questo mi ha obbligato ad arraffare questo foglio di carta, ritrovare la sua lettera addormentata nella casella, e scriverle queste righe che vogliono dirLe soprattutto come il vecchio amico perugino può non (potere) scrivere, ma non dimentica mai. (…) Intanto mi mandi sue buone nuove. Le mie, come le ho detto, son ben dure. Senza un soldo (e Tizio e Caio han fatto milioni), ridotto ad una povertà appena dissimulata, carico di lavoro e di preoccupazioni di tante e tante cose, di certo non mi lamento di una vita sbiadita e monotona”.
Umberto Benigni morì nella sua casa romana di via Arno 33 il 27 febbraio 1934; le sue spoglie, deposte nell’oratorio privato, furono poi portate nella chiesa dei Padri Mercedari di Piazza Buenos Aires che, su domanda di Padre Saubat, gli avevano amministrato gli ultimi sacramenti. Funerali singolari, alla presenza di 7-8 senatori, dai 12 ai 15 deputati, con gli onori di 12 carabinieri in gran tenuta… e solo due sacerdoti: Padre Jules Saubat, dei Fratelli del Sacro Cuore di Betharram, già della Dieta del Sodalitium Pianum, e Padre Henri Jeoffroid, procuratore generale dei Fratelli di San Vincenzo de’ Paoli; il 1 marzo fu sepolto nella sua Perugia.
Alla sua morte Mons. Benigni lasciava incompiuta la sua opera. Nel 1939 un memoriale del giornalista Guido Aureli in memoria e difesa del vecchio amico, Mons. Benigni, ricordava il paradosso della stima per l’opera storica del Benigni da parte del mondo “laico”(citando tra l’altro il giudizio del direttore generale della pubblica istruzione e poi capo gabinetto del ministro Orlando, Giuseppe Corradini: “è una delle più grandi opere storiche di questi ultimi anni: vi sono dei difetti come in tutte le opere creative; una storia sociale della Chiesa non esisteva ancora; da questa altre verranno, ma nessuno ha scritto originalmente sino ad oggi una così grande opera…”) e all’opposto i giornali cattolici italiani e l’Osservatore Romano sabotarla “nel modo più indegno”. Il 27 gennaio 1938 l’editore Vallardi comunicava all’Aureli che la “prematura morte di Mons. Benigni” aveva fatto sì che l’opera si arenasse e non si trovava chi fosse capace di portarla a compimento”. Eppure, testimonia l’Aureli, “vi sarebbe da domandarsi dove è andata a finire la mole del lavoro storico oltre il IV volume (sic, per V volume). È noto a me e a quanti ancora frequentavano Mons. Benigni che la Storia era giunta ben oltre l’epoca del volume in parola” (cit., da Valbousquet e Dieguez). Ma in fondo si può dire che i volumi successivi sono virtualmente contenuti in quest’ultimo, dedicato alla crisi medioevale, se è vero, com’è vero, che come scrisse Mons. Benigni nell’introduzione a quest’ultimo volume: “la crisi medioevale ha generato l’epoca moderna, quella delle ‘rivoluzioni a sinistra’: Riforma, Rivoluzione francese, Quarantotto socialista, il terremoto anarchico-bolscevico di oggi” e, potremmo aggiungere, la rivoluzione modernista nella Chiesa che Mons. Benigni, al fianco di San Pio X, combatté ai suoi tempi, ritardando, ma non impedendo, purtroppo, la sua catastrofica, seppur passeggera (lo crediamo per Fede), vittoria dei nostri giorni.