2014 Comunicati  09 / 04 / 2014

Una repubblica fondata sulla burocrazia

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 39/14 del 9 aprile 2014, San Demetrio

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Il quotidiano La Stampa ha pubblicato un emblematico articolo di Luca Ricolfi sulla burocrazia dello stato italiano. Lo segnaliamo ai lettori, pur non avendo simpatia per il giornale della famiglia Agnelli-Elkann.

Burocrazia, ecco il nemico numero uno dell’Italia, di Luca Ricolfi

Caro Matteo Renzi, questo non è un articolo sul Governo, ma è una riflessione sui suoi nemici. Anzi, su un nemico, forse il nemico numero uno, di chiunque voglia cambiare le cose in Italia: la Pubblica Amministrazione. Lo so che non dirò cose nuove, ma vorrei ugualmente raccontare una storia, perché alle volte i dettagli sono più illuminanti dei riassunti. Il riassunto è che la Pubblica Amministrazione è mal organizzata, inefficiente, arrogante, e non ha nessun rispetto per il cittadino. I dettagli stanno nella storia che ora vi racconto.
Il quotidiano “La Stampa” ha un ufficio studi, cui collabora la Fondazione David Hume, specializzata nella raccolta e analisi dei dati. Molti grafici e dossier originali che potete leggere sulla Stampa sono frutto di elaborazioni statistiche più o meno complicate del nostro ufficio studi. Ma per fare elaborazioni statistiche ci vogliono i dati. Noi ne abbiamo tantissimi, e tantissimi li troviamo nelle numerose banche dati accessibili su internet. Succede però, qualche volta, che certi dati non si riescano proprio a trovare. Non parlo di dati strani o ultra-specialistici. No, io parlo di dati importanti ma normalissimi, ad esempio l’andamento dei delitti, o le ore di cassa integrazione. In questi casi può succedere che la Stampa voglia fare un articolo, o pubblicare un grafico, o preparare un dossier, e che non trovi i dati; non perché non li riesce a trovare, ma perché chi dovrebbe renderli pubblici non lo fa, o semplicemente non lo ha ancora fatto.

Che succede in questi casi?
Prima eventualità: abbiamo bisogno dei dati subito e, non potendoli ottenere in poche ore, rinunciamo a cercarli; il lettore della Stampa non avrà le informazioni che pensavamo di potergli fornire.
Seconda eventualità: stiamo preparando un dossier che uscirà fra qualche giorno, settimana o mese, e quindi possiamo aspettare; decidiamo quindi di chiedere i dati a chi li produce o li raccoglie, di norma facendo una telefonata e mandando una mail al responsabile di un ufficio pubblico (ad esempio il ministero dell’Interno). E qui comincia un’odissea che talora non termina mai, quasi sempre richiede molto tempo, diversi solleciti, e in casi come quello che sto per raccontare finisce nel grottesco.

Lunedì 17 marzo

L’ufficio studi della Stampa sta cercando di prevedere quando ci sarà (finalmente!) una ripresa dell’occupazione. Decidiamo di analizzare i dati dell’occupazione a partire dal 1980. Ma abbiamo bisogno anche della serie storica, possibilmente su base mensile, delle ore di cassa integrazione (ordinaria, straordinaria e in deroga).

Che fare?
Si va a consultare il database on line dell’Inps e si scopre che i dati ci sono, ma solo dal 2005. Decidiamo quindi di rivolgerci, via telefono e via mail, agli uffici dell’Inps, per avere anche i dati dal 1980 al 2005. La risposta arriva il giorno stesso, e contiene due sorprese. Prima sorpresa: l’Inps non è in grado di fornire le ore mensili di cassa integrazione nel periodo 1980-2000. Seconda sorpresa: l’Inps è disposta a fornire le ore mensili di cassa integrazione dal 2000 in poi, ma solo a pagamento;
Incredibile che non si possa conoscere il passato recente (prima del 2000) della cassa integrazione. Incredibile che per avere dati così banali e di pubblico interesse si debba pagare. Ma pazienza, ci teniamo molto a quei dati e quindi ci disponiamo a pagare. Diciamo all’Inps di mandarci un preventivo per ottenere i dati dal 2000 in poi, visto che l’istituto non è in grado di produrre quelli precedenti.

Martedì 18 marzo
L’Inps ci comunica che il preventivo arriverà e che, «assolta (da parte nostra) la parte burocratica, i dati verranno inviati entro una settimana». Gasp. Chissà quanto tempo metteranno a produrre questo preventivo, chissà che cosa sarà la «parte burocratica» che dovremo assolvere, chissà se, una volta pagati i dati (in anticipo, suppongo), ci arriveranno davvero in una settimana. Aspettiamo con fede. Passa qualche giorno e, anziché il preventivo, ci arriva la richiesta di comunicare il codice fiscale o la partita Iva della Fondazione, in modo da accelerare l’iter della nostra richiesta. Evidentemente l’Inps si prepara a incassare i nostri soldi prima ancora di averci detto quanti ne vuole.

Martedì 1° aprile
Sono passati ormai 14 giorni dalla nostra prima richiesta e finalmente riceviamo il preventivo dell’Inps. Arrivato a questo punto del mio racconto, però, devo pregare l’ex ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, se mai si trovasse a leggere questo articolo, di non perdere la calma: siamo nel 2014 e, in barba alla sua riforma e a ogni direttiva in materia di digitalizzazione, il preventivo Inps arriva alla sede della Stampa per posta. Sì, avete letto bene: per posta. La lettera è datata mercoledì 26 marzo 2014, dunque è stata scritta una settimana dopo la nostra richiesta, e impiega un’altra settimana per arrivare sul nostro tavolo. Dunque, ricorrendo alla posta ordinaria, anziché a quella elettronica, l’Inps ci ha fatto perdere una settimana, ha sprecato carta per la busta, la lettera e gli allegati, ha fatto lavorare inutilmente le poste, che hanno trasferito il tutto da Roma a Torino.

La lettera
Ma questo è niente. La lettera si rivolge a «codesta Fondazione» e ci informa che, nella busta, troveremo sia il preventivo sia una lettera di accettazione, che dovremo compilare e restituire firmata (sempre per posta, suppongo). Tutto ciò «in attuazione della Determinazione Commissariale n. 60 dell’11 marzo 2010 relativa alla fornitura di dati statistici».
Sbigottito e tramortito, do un’occhiata alla lettera di supplica che, come rappresentante di «codesta Fondazione», dovrei firmare e inviare all’Inps (sempre per posta, suppongo) e vengo a scoprire che tale lettera: è indirizzata al Presidente dell’Inps dott. Antonio Mastrapasqua (ma non si era dimesso per i troppi incarichi?); mi obbliga a spiegare a che diavolo mi servono questi dati (quasi fossero istruzioni per costruire la bomba atomica); mi vieta di farne quel che mi pare (pur avendoli pagati); pretende che dichiari di essere a conoscenza del «D.Lgs n. 196/2003», ovviamente comprese le successive modifiche».Rammento al lettore che avesse avuto la perseveranza di seguirmi fin qui che non stiamo parlando di dati sensibili, o di informazioni personali, ma solo e semplicemente delle ore di cassa integrazione pagate dall’Inps negli ultimi anni.

Il preventivo
Esausto, guardo il preventivo e il sangue mi si raggela. Per darmi queste benedette serie storiche delle ore di cassa integrazione l’Inps deve produrle con una «Elaborazione statistica ad Hoc» (perché Hoc maiuscolo?). Tale elaborazione, che in un qualsiasi centro di calcolo minimamente organizzato porta via qualche minuto, all’Inps richiede un passo di «estrazione e controllo dei dati» nonché un passo di «produzione tavole statistiche», per un totale di 4 ore di lavoro.
E siamo alla chicca finale: quanto costano 4 ore di lavoro di un dipendente Inps? Risposta: 732 euro. Un’ora, infatti, costa 150 euro, 4 ore fanno 600 euro, ma bisogna aggiungere un 22% di Iva. In tutto fa, appunto, 732 euro. Dunque il dipendente Inps non solo impiega un pomeriggio per fare quel che in una normale organizzazione richiede non più di 10 minuti, ma il pomeriggio del dipendente Inps costa circa come un mese di lavoro di un giovane occupato in un call center. Nemmeno un alto magistrato costa così allo Stato.

Morale
Non pagheremo, e rinunceremo ai dati sulla cassa integrazione. Non si possono pagare così cari dati che dovrebbero essere pubblici. Non si possono aspettare settimane per ottenere dati così elementari. Non si può lavorare e fare informazione in un paese che funziona così.
Ecco, l’articolo è finito. L’ho rivolto al presidente del Consiglio perché la sua battaglia per la pubblicità dei dati è sacrosanta ma temo che, per vincerla, non gli basteranno buone leggi e buoni regolamenti. La burocrazia non è fatta solo di procedure tortuose e ingessate, la burocrazia è anche una mentalità. Una mentalità i cui capisaldi sono la rinuncia a usare il buon senso, e la totale incapacità di percepire il ridicolo. Può darsi che, in certi casi, il burocrate sia strettamente tenuto a seguire certe procedure, e che qualsiasi ricorso a scorciatoie semplici e ragionevoli gli costi rimproveri e punizioni. Ma la mia sensazione è che, ormai, il sistema sia arrivato a un tale punto di sclerosi da aver completamente smarrito la capacità di auto-osservarsi, precondizione di qualsiasi cambiamento. Perché lo scandalo, la notizia, non è che si chiedano 732 euro per una manciata di dati, ma è la tranquilla serenità con cui quella richiesta viene formulata, come se l’assurdo, ormai e per sempre, fosse entrato nel Dna della Pubblica Amministrazione.

La Stampa