Terra Santa – Popolazione araba in ginocchio, i cristiani tra i più colpiti
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 62/12 del 9 giugno 2012, San Merardo
Terra Santa, futuro incerto per le famiglie cristiane palestinesi
Sono sempre meno numerose. E molte sognano di emigrare per garantire un futuro migliore ai propri figli. Oggi le famiglie arabo-cristiane dei Territori palestinesi (…), sono circa 15 mila, per un totale di 50 mila fedeli. Si tratta di famiglie che stanno vivendo, in questi anni, una situazione di crescente difficoltà. «I problemi che devono affrontare pur essendo collegati tra loro, sono di due ordini diversi – racconta Bernard Sabella, professore di sociologia all’Università di Betlemme (nel tondo) e autore di molti saggi sui cristiani arabi -. Da una parte c’è l’occupazione israeliana, le cui conseguenze i palestinesi cristiani condividono con la maggioranza musulmana; dall’altra il numero dei cristiani arabi diminuisce costantemente in termini relativi, e questo mette a rischio la sopravvivenza stessa della loro comunità».
Nella città di Gerusalemme, ad esempio, nel 1988 i cristiani erano 14.400, contro una popolazione di 353.800 ebrei e 125.200 musulmani.
Venti anni dopo, nel 2009, il numero di cristiani è cresciuto di poco (14.500), mentre quello di ebrei (763.500) e musulmani (264.300) è addirittura raddoppiato. «L’occupazione è dura per tutti, cristiani e musulmani, e tutti nei Territori vivono i disagi della crisi economica e della disoccupazione – spiega Sabella -. Ma per la comunità cristiana le conseguenze sono peggiori, poiché la sua consistenza numerica è già limitata in partenza. Oggi, ad esempio, nella città vecchia di Gerusalemme le giovani donne cristiane in età da marito sono 109, mentre i giovani cristiani solo 85, poiché tanti sono emigrati all’estero per studiare o lavorare. Questo significa che molte ragazze cristiane sono destinate a rimanere nubili; e che il numero delle famiglie cristiane è destinato a diminuire».
Un altro problema, poi, è legato al basso tasso di natalità proprio delle famiglie arabe cristiane. «I miei genitori hanno avuto otto figli – racconta Sabella -, io ne ho avuti tre. E i miei due figli sposati ancora non ne hanno. Le famiglie cristiane palestinesi stanno adottando tassi di crescita demografica occidentali; le giovani coppie alimentano aspettative tipiche della classe media europea, come il sogno di una buona istruzione per i figli e di un buon lavoro. Anche per questo il nostro tasso di natalità è diminuito e si attesta intorno all’1,5 o al 2 per cento; pur essendo positiva, si tratta di una percentuale inferiore a quella della più numerosa comunità musulmana. Il problema inoltre è che il tasso di emigrazione della comunità cristiana è dell’1 per cento all’anno».
Morale: la comunità cristiana di Terra Santa non sta crescendo; e in termini relativi sta addirittura precipitando. «In ogni caso uno dei problemi centrali è quello dell’instabilità politica – continua Sabella -: se potessero immaginare una vita normale per i propri figli, molte famiglie cristiane rimarrebbero in Palestina. La situazione è migliore, invece, per i cristiani arabi che vivono in Israele. In una città come Haifa, ad esempio, i cristiani arabi vivono in pace con musulmani ed ebrei ed è possibile progettare il futuro».
Fonte: Terra Santa
L’ombra della povertà su Gerusalemme Est
Un paio di settimane fa, il 20 maggio, lo Stato di Israele ha celebrato il Giorno di Gerusalemme, festività che ogni anno ricorda la presa di tutta la Città Santa, compresi il centro storico e i quartieri orientali, al termine della guerra dei Sei giorni, nel 1967. Ovviamente la popolazione arabo/palestinese non si entusiasma, ma la ricorrenza offre anche il pretesto per fare il punto sullo «stato di salute» della città, e in particolare sulle condizioni di vita dei residenti di Gerusalemme Est. Ci prova, per esempio, l’Associazione per i diritti civili in Israele (Acri), che alla vigilia della festa ha pubblicato un rapporto di 11 pagine sul tema.
Un dato per cominciare: stando alle statistiche fornite dall’Istituto nazionale di assicurazione – uno dei pilastri dello Stato sociale in Israele – nel 2010 il 78 per cento dei palestinesi che risiedono a Gerusalemme (Est) viveva sotto la soglia della povertà. Va anche peggio se si considera la fascia dei minorenni, tra i quali i poveri raggiungono l’84 per cento. Si tratta di individui che campano con somme inferiori ai 470 euro al mese (o di nuclei familiari tipo di quattro membri che sbarcano il lunario con meno di 1.200 euro). La situazione appare in via di deterioramento e lo conferma un raffronto con i dati del 2006, anno in cui poteva essere considerato molto povero il 64 per cento della popolazione palestinese (e il 73 per cento dei minori).
Ma quali elementi concorrono a rendere difficile l’esistenza dei quasi 361 mila palestinesi residenti in città?
In sintesi, secondo l’analisi Acri, le ragioni principali della povertà a Gerusalemme Est sono il muro di separazione, che ostacola la mobilità delle persone e il commercio; le consuetudini culturali che inibiscono alle donne l’accesso al mondo del lavoro; l’insufficiente livello di istruzione della popolazione araba.
Da quando l’alto muro eretto dalle autorità israeliane si insinua nelle propaggini orientali di Gerusalemme, la popolazione araba dei villaggi circostanti ha dovuto rinunciare alla consuetudine di recarsi in città per fare compere. Se ne hanno risentito gli esercizi commerciali del centro, ne beneficiano quelli dislocati oltre il muro, in Cisgiordania, a cui ormai la gran parte dei consumatori è costretta a rivolgersi.
Oltre il muro, a oriente, sono rimaste 90 mila persone che, pur essendo titolari di una speciale carta d’identità israeliana che le riconosce come residenti a Gerusalemme, devono ormai sottoporsi ai lunghi controlli – e arbitrarie chiusure – dei varchi israeliani quando devono andare in centro per recarsi a scuola o al lavoro o per usufruire dei servizi socio-sanitari disponibili solo in città. L’imponente barriera grigia, secondo Acri, ha ripercussioni anche sugli ospedali arabi di Gerusalemme Est, più difficili da raggiungere sia per i pazienti che per il personale sanitario palestinese. Nel 2006 la richiesta di cure in quei nosocomi da parte dei residenti di Gerusalemme Est e dintorni è precipitata dal 69 al 29 per cento. Il che ha anche indotto una crisi di carattere finanziario nelle strutture sanitarie interessate. Tutto sommato, scrive l’Acri, oggi Gerusalemme Est per i palestinesi non è più quel polo di attrazione culturale, economico, politico e religioso che era un tempo.
Sul piano urbanistico il rapporto dell’associazione umanitaria israeliana segnala una serie di punti critici. A cominciare dal distretto industriale nell’area nord-orientale di Wadi Joz. Vi si concentravano le attività di piccoli imprenditori e commercianti palestinesi. Esse però ora vanno pian piano spegnendosi, nell’indifferenza delle autorità municipali (israeliane), le quali a volte concorrono a creare i problemi che portano alla chiusura degli esercizi. Considerata la situazione, gli imprenditori palestinesi preferiscono ormai investire a Ramallah, Betlemme, Hebron o in altre località della Cisgiordania.
Anche la rete fognaria appare inadeguata. Servirebbero 50 chilometri di condotte in più. Si ovvia al problema con le fosse biologiche, soggette di tanto in tanto a tracimazioni che creano allarmi per la salute pubblica. Gli uffici postali sono solo 9, contro i 42 distribuiti per le vie di Gerusalemme Ovest. Nelle scuole dei quartieri orientali si registra una penuria di aule: ce ne vorrebbe un migliaio in più. Quelle costruite negli ultimi anni non bastano. Quanto agli asili nido: di pubblici se ne contano sono soltanto 6, a fronte dei 66 presenti a Gerusalemme Ovest.
Anche le politiche urbanistiche presentano aspetti controversi. Nelle aree cittadine prevalentemente abitate da ebrei l’indice di fabbricabilità è il doppio di quello consentito nei quartieri palestinesi. Nel quadriennio 2005-2009 solo il 13 per cento delle licenze edilizie rilasciate riguardavano appartamenti in costruzione a Gerusalemme Est, area in cui si calcolano in media 11 metri quadrati per ogni residente, contro i 20 a disposizione di un residente nei quartieri occidentali.
I servizi sociali operano a Gerusalemme Est – dove vive un terzo della popolazione cittadina – con soli 19 addetti e tre uffici (in contrasto con i 18 aperti a Gerusalemme Ovest, dove vive la popolazione ebraica). Una penuria tanto più eclatante se si guarda anche solo al numero di minori a rischio: sono 6.150 e vivono in un contesto nel quale la violenza domestica è in crescita.
Dal 1967 ad oggi 14.084 palestinesi si sono visti revocare il diritto di residenza a Gerusalemme. Circa la metà delle revoche si è registrata a partire dal 2006. Il picco nel 2008 con 4.577 revoche in un solo anno. Chi viene privato della residenza non può aprire un conto corrente in una banca israeliana, né beneficiare dei servizi sociali e così via. Può solo sperare in un lavoro nero, privo di assicurazione e di contributi pensionistici.
Un quarto dei palestinesi residenti a Gerusalemme e regolarmente occupati trova impiego nel comparto alberghiero e della ristorazione. Il settore dell’istruzione recluta un altro 19 per cento di lavoratori; la stessa percentuale utilizzata nell’erogazione di vari servizi di pubblica utilità. L’Acri annota però che molti lavorano part time o percepiscono salari inadeguati.
In definitiva si calcola che sia stabilmente all’interno del mondo del lavoro solo il 40 per cento della popolazione attiva maschile e il 15 per cento di quella femminile. Il retaggio culturale tradizionale fa sì che la schiacciante maggioranza delle donne si dedichi a tempo pieno, ed esclusivamente, alla propria famiglia entro le mura domestiche.
Un lavoro qualificato è ovunque strettamente correlato a un solido livello di istruzione. Lo stesso accade a Gerusalemme. E anche su questo versante per i giovani palestinesi son dolori.
Il 40 per cento degli studenti non porta a compimento il ciclo di studi, che si conclude con la dodicesima classe, intorno ai 18 anni. Tra coloro che arrivano a fine percorso ben pochi riescono a conseguire il bagrut, certificato indispensabile per immatricolarsi nelle università ebraiche. D’altronde, il più delle volte, gli studenti di Gerusalemme Est apprendono l’ebraico solo come terza o quarta lingua, dopo l’arabo e l’inglese (e il francese o tedesco). Oltretutto parecchi dei loro insegnanti di ebraico non sono in possesso dei titoli accademici più idonei per l’insegnamento della lingua, il che – secondo il rapporto Acri – riduce ulteriormente la possibilità di padroneggiare la lingua a un livello tale che consenta di inserirsi in ambiti lavorativi israeliani ove sia richiesto un uso fluente della lingua scritta e parlata. Non restano perciò che i lavori manuali.
È così che molti giovani qualificati – in possesso del diploma tawjihi, in uso nel sistema scolastico della Giordania e dei Territori Palestinesi – finiscono per andare a studiare o a cercare impiego all’estero o in Cisgiordania. Comunque via da Gerusalemme.
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