Terra Santa – L’ apartheid non risparmia l’assistenza sanitaria
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 12/13 del 4 febbraio 2013, Sant’Andrea Corsini
Quegli ospedali quasi irraggiungibili di Gerusalemme Est
di Marta Fortunato
(Betlemme) – «Sono arrivata oggi all’ospedale Makassed perché mia figlia deve essere operata al cuore. Sono venuta da sola da Jenin perché mio marito non ha ottenuto il permesso per entrare a Gerusalemme». A parlare è Umm Bar’a, una giovanissima madre che vive nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania, a più di 100 chilometri da Gerusalemme. Sua figlia, Bar’a ha solo 40 giorni e una grave malformazione al cuore. E Gerusalemme Est è l’unico luogo in tutta la Palestina dove vengono eseguite operazioni così delicate.
I sei principali ospedali di Gerusalemme Est – Augusta Victoria, Makassed, San Giovanni, San Giuseppe, Principessa Bassma, e la Clinica Ostetrica della Mezza Luna Rossa – forniscono servizi medici specialistici che non si trovano in nessun altro luogo della Palestina.
Eppure, per gli oltre quattro milioni di palestinesi di Cisgiordania e Gaza, la Città Santa è diventata sempre più inaccessibile. Imprigionati nella Striscia di Gaza od ostacolati dal muro di separazione, dai posti di blocco e dal complesso sistema dei permessi israeliani, i palestinesi sono costretti ad affrontare grandi difficoltà fisiche e burocratiche per poter entrare a Gerusalemme e veder riconosciuto il proprio diritto alla salute.
Senza permesso sanitario il muro non si varca. Ed ottenerlo non è per niente facile, soprattutto se si è uomini tra i 18 e i 30 anni. Le procedure sono lunghe ed il tasso di rifiuto molto alto.
Una volta che si ha il permesso è necessario attraversare uno dei numerosi check-point che dividono Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania. Spesso le file sono interminabili, soprattutto nelle prime ore del mattino.
«Vivo a Betlemme, devo recarmi due volte a settimana a Gerusalemme per delle cure» racconta Abu Tareq, un anziano signore di un villaggio vicino a Betlemme, mentre si riposa al check-point 300, il principale posto di blocco che separa Betlemme da Gerusalemme. «Ho una protesi alla gamba ed ogni volta che attraverso il metal detector i militari israeliani mi bloccano per almeno un’ora per perquisirmi. E ho degli amici malati di cancro o con disfunzioni cardiache che sono costretti ad attraversare da soli il posto di blocco a piedi perché non hanno il permesso per passare in auto o per farsi accompagnare dai loro familiari».
A causa delle enormi difficoltà poste da Israele, molti palestinesi si sono riversati nelle strutture mediche in Cisgiordania, anche se non forniscono cure mediche specialistiche. Questo ha portato a una grande diminuzione del numeri di pazienti negli ospedali di Gerusalemme Est. In pochi anni nell’ospedale Makassed il numero di pazienti portati al pronto soccorso si è dimezzato a causa del progressivo isolamento di Gerusalemme Est dal resto della Palestina.
Ed il problema non riguarda solo i bisognosi di cure ma anche il personale medico e i mezzi di soccorso: molto spesso i medici ed gli infermieri che vivono in Cisgiordania arrivano in ritardo al proprio posto di lavoro a Gerusalemme a causa delle lunghe attese ai check-point. Inoltre ottenere un permesso di lavoro per i nuovi assunti è molto difficile e complicato e di fatto negli ultimi anni a Gerusalemme Est il numero di medici con una carta d’identità della Cisgiordania si è ridotto di quasi il 10 per cento (dal 70 per cento del 2007 al 61 per cento del 2009, dati dell’Organizzazione mondiale della sanità).
Anche il lavoro delle ambulanze viene spesso ostacolato dai numerosi posti di blocco dislocati in tutta la Cisgiordania. Secondo la Società della Mezza Luna Rossa Palestinese nel 2009 sono stati registrati quasi 300 casi di ritardo o di blocco dei mezzi di pronto soccorso presso i check-point che conducevano a Gerusalemme.
«Qualche anno fa mia nonna ha avuto un attacco cardiaco, – racconta Bilal Jadou, un giovane ragazzo del campo di ‘Aida, nell’area di Betlemme – Abbiamo chiamato un’ambulanza, che non è stata autorizzata ad entrare nel campo. Così abbiamo dovuto trasportare mia nonna a dorso di mulo e poi attraversare il posto di blocco a piedi. Ci abbiamo messo tre ore e nel frattempo le sue condizioni si son fatte sempre più critiche».