Tavola valdese kosher
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 59/12 del 1° giugno 2012, Sant’Angela Merici
Tavola valdese kosher
Vi è un grande fermento negli ambienti dell’estrema sinistra, sostenitori della setta valdese, da quando hanno scoperto che la “tavola valdese” utilizza una parte dell’8 per mille per finanziare il progetto Saving Children del Centro Peres di Tel Aviv. Che cos’è questa organizzazione, apparentemente umanitaria? Ce lo spiega il giornalista israeliano, di padre sefardita e madre askenazita, Meron Benvenisti.
Un monumento a un tempo perduto e a speranze perdute
di Meron Benvenisti (Ha’retz, 30/10/2008)
Shimon Peres lo ha fatto con stile, come al solito. La celebrazione del decimo anniversario del Peres Center per la Pace è stato un evento brillante, pieno di celebrità internazionali e di artisti famosi, e naturalmente includeva la poesia scritta dall’ospite principale che iniziava, “Oh, mio Dio, è tempo di pregare”.
Il punto culminante dei festeggiamenti è stato l’inaugurazione della Casa del Peres Center a Jaffa, un edificio magnifico di grandi blocchi verdi, costato 15 milioni di dollari, tre volte la stima iniziale. L’edificio è senza finestre, ha l’aria condizionata dappertutto ed è reso inaccessibile dai quartieri limitrofi, abitati da una popolazione araba povera. Si affaccia sul mare, come se ai suoi costruttori fosse stato suggerito che le possibilità di pace si trovano ad ovest, al di là del mare, e non all’ est, dove abitano vicini nemici.
La magnificenza e l’eleganza, purtroppo, oscurano il senso di una opportunità perduta. Gli eventi dei giorni della costituzione del Centro Peres per la Pace nell’ottobre 1997, indicano con forza la cultura politica che aveva favorito la pace; che era piena di fiducia nella possibilità di arrivare alla pace; e sfidava l’approccio di Benjamin Netanyahu, che aveva battuto Peres e fatto tutto il possibile per silurare gli accordi di Oslo. Oggi i festeggiamenti non possono nascondere il fatto che del campo della pace rimane soltanto un modesto residuo, che una industria di pace funziona per forza di inerzia e che coloro che ne sono coinvolti inventano scuse per la loro attività e tutto ciò suggerisce l’idea che stanno trasformando la pace in uno strumento per perseguire i loro scopi personali.
Solo col senno di poi siamo in grado di vedere i danni funesti fatti dagli accordi di Oslo, che hanno ispirato Peres nell’organizzare il Centro: gli accordi, invece di determinare un cambiamento nello statu quo, sono diventati un pilastro di un regime de facto binazionale (chiamato “occupazione”), che si è istituzionalizzato in regime permanente. Gli Accordi di Oslo sono l’infrastruttura legale destinata alla divisione della Cisgiordania in cantoni, che permette il controllo israeliano sul 60% del territorio (Area C) come pure l’infrastruttura costituzionale per l’esistenza di una Autorità Palestinese virtuale. La ‘pletora’ di titoli assunti dai suoi leaders e le uniformi ufficiali dei suoi soldati rendono possibile mantenere la falsa illusione della natura temporanea del regime di controllo israeliano e pertanto di perpetuarlo.
Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei. Con atteggiamento colonialista, il centro presenta un olivicoltore che scopre i vantaggi della commercializzazione cooperativa; un pediatra che riceve un formazione professionale negli ospedali israeliani; un importatore palestinese che impara i segreti del trasporto delle merci attraverso i porti israeliani che sono famosi per la loro efficienza; e, naturalmente, gare di calcio e orchestre miste di israeliani e palestinesi, che danno una falsa immagine di coesistenza.
Non c’è possibilità che gli attivisti e amministratori del Centro Peres possano partecipare alla lotta quotidiana dei raccoglitori palestinesi di olive; ai frustranti sforzi di trasportare i malati in fase critica attraverso i checkpoints; o di rompere l’assedio economico e il blocco navale di Gaza. Il Centro Peres per la Pace non pubblica relazioni sulla catastrofica situazione economica dei palestinesi e non mette in guardia sulle responsabilità di Israele per questa situazione; dopo tutto, non è un club di anarchici che odiano Israele ma di persone rispettabili che contribuiscono principalmente alla pace nel finanziamento generoso di eventi scintillanti ai quali partecipano.
E’ sempre stato sostenuto che il contributo principale, e forse rivoluzionario, degli accordi di Oslo non sta nella “dichiarazione di principi”, ma nel riconoscimento reciproco fra il movimento nazionale palestinese e lo Stato di Israele. Ma questo reciproco riconoscimento che ha trasformato i palestinesi da entità terrorista in una entità legittima agli occhi degli israeliani fu cancellato sulla scia degli attacchi suicidi e della violenza dell’intifada Al Aqsa, dopo la quale si è tornati al punto di vista pre-Oslo.
Ora gli ebrei stanno consegnando agli arabi una dichiarazione di divorzio, voltando loro le spalle, imprigionandoli dietro muri sigillati e checkpoints, ponendoli ‘volonterosamente’ sotto la loro custodia e pregando che il Mediterraneo si prosciughi o che possa essere costruito un ponte per ricongiungerli direttamente all’Europa.
Questa mentalità ha creato nel passato decennio due strutture monumentali, il cui significato simbolico è più grande del loro valore funzionale: il muro di separazione e il nuovo aeroporto internazionale Ben Gurion. Il primo è stato progettato per nascondere i palestinesi e cancellarli dalla nostra consapevolezza, mentre il secondo serve come via di fuga e base per un ponte aereo verso l’Occidente.
Il terzo monumento che è stato costruito in questo decennio, la Casa della Pace Peres di Jaffa, li unisce come memoriale di un tempo e di speranze perdute e l’unica cosa che rimane è di unirsi alla preghiera di Peres: ”Allora mandiamo un Raggio di Speranza per una nuova via”.
Meron Benvenisti. Nato nel 1934 a Gerusalemme da padre sefardita e madre ashkenazita, è uno scienziato e uomo politico israeliano. Svolse mandati amministrativi a Gerusalemme fra il 1971 e il 1978, con particolare riferimento alla zona Est e alle sue vicinanze arabe. E’ un critico acuto della politica israeliana riguardo la Striscia di Gaza, e più in generale della linea Sharon. Sostiene l’idea di uno stato “binazionale”, scrive per Ha’aretz, The Guardian e Le Monde Diplomatique. Ha pubblicato diversi libri sul tema: West Bank Data Project: A Survey of Israel’s Policies (1984), Intimate Enemies: Jews and Arabs in a Shared Land(1995), City of Stone: The Hidden History of Jerusalem (1996). L’ultimo è Sacred Landscape: Buried History of the Holy Land Since 1948 (University of California press, 2002), e la recentissima autobiografia, Son of the Cypresses: Memories, Reflections, and Regrets from a Political Life (2007). Con Danny Rubinstein ha pubblicato The West Bank Handbook: a Political Lexicon (1986).
Articolo pubblicato dal quotidiano israeliano Ha’retz, 30.10.08, traduzione e nota biografica a cura di Diana Carminati.
Fonte: Forum Palestina