Taciti ed invisibili partono gli algoritmi
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 53/20 del 29 maggio 2020, Santa Maria Maddalena de’ Pazzi
Taciti ed invisibili partono gli algoritmi
Siamo davvero disposti ad affidare i nostri diritti alla benevolenza di un algoritmo?
La storia è ghiotta. Donald Trump, il re del tweet, l’uomo che ha 80,3 milioni di follower, litiga con Twitter. Di più: minaccia di imporre controlli sul social network, se non di chiuderlo. Il tutto per un paio di micro-messaggi. In essi Trump, che il 3 novembre si gioca la Casa Bianca con Joe Biden, criticava l’idea di far votare “via posta su larga scala” per sfuggire al rischio Coronavirus, giudicando il voto a distanza come una porta aperta alle frodi e ai brogli. Twitter ha apposto ai messaggi di Trump la dicitura “potenzialmente fuorvianti”, con un link ad articoli e materiali vari sul voto via posta.
Non era mai successo prima, a un Presidente degli Stati Uniti d’America. Ma è una questione che, a dispetto delle apparenze, riguarda anche noi. Trump sostiene che il voto per posta è inaffidabile. Vero o no? Risposta: sì e no. Gli esperti dicono che in effetti, quando si è votato per posta, non sono mancati i brogli. Anche di recente: nel 1997 il sindaco di Miami si fece rieleggere inviando ai seggi schede di elettori fittizi. Nel 2018 un deputato del Wisconsin riuscì a conquistare lo scranno andando casa per casa a farsi consegnare schede elettorali in bianco. Sempre loro, gli esperti, dicono che votare di persona è comunque più sicuro. Ma aggiungono che una frode su scala nazionale come quella che servirebbe per far eleggere un Presidente degli Usa non potrebbe non essere scoperta. E che in alcuni Stati americani (Colorado, Washington, Oregon) si vota molto, e da tempo, via posta senza che il numero dei brogli sia aumentato.
Il punto vero, però, non è questo. Trump ha tutto il diritto di pensare e di dire che il voto via posta è una disgrazia, così come il suo rivale Biden ha quello di sostenere l’esatto contrario. Sono politici, esprimono un’opinione politica e propagandano una convenienza politica. Infatti i soliti esperti spiegano una cosa peraltro chiara: negli Usa per andare a votare bisogna iscriversi nelle liste elettorali, una procedura che i più poveri e i più giovani spesso disertano. Votare per posta, si pensa, favorirebbe la partecipazione di queste categorie, che sono mediamente più inclini a votare per i Democratici. Di qui il no dei repubblicani e di Trump.
Quello che non si capisce, invece, è quale diritto e quale autorità abbia un’azienda privata come la Twitter, Inc., che nel 2018 ha fatto un utile netto di 1,2 miliardi di dollari, a ergersi a giudice della verità. Certo, il fact checking, la verifica dei fatti. Ma di chi? I portavoce di Twitter, rispondendo sul “caso Trump”, non hanno voluto precisare chi abbia deciso di “smentire” il Presidente né hanno detto chi ha assemblato i materiali, indicati dal link, che dovrebbero offrire ai lettori l’interpretazione “vera” della polemica sul voto per posta. E non hanno confermato né smentito che il tutto sia stato generato, in automatico, da uno dei soliti algoritmi che regolano la vita di Internet.
Il fact cheking, quindi, rischia di voltarsi nel suo contrario. Perché di Trump conosco i precedenti di comunicatore e di politico, so quali sono i suoi interessi elettorali e personali, posso almeno immaginare quali siano le ragioni alla base delle sue affermazioni. Ma di un algoritmo che cosa so? Mica sono quello che l’ha programmato. E se invece a dichiarare erroneo Trump fosse stato un tizio qualunque, magari uno stagista pagato quattro soldi, devo pensare che proprio da lui arrivi la “verità”?
Come si diceva, la questione ci riguarda. Per almeno due ragioni. La prima è la tendenza, diffusa da molti anni, a ritenere che la politica sia meno legittima e affidabile di qualunque altra istanza. La casta, insomma. Ma chi l’ha detto? Davvero crediamo ancora alla favola che il popolo è migliore di chi lo rappresenta? Trump, invece, è stato eletto da un’America che si sentiva perfettamente rappresentata da lui. Così come tutti i politici che, negli Usa, in Italia o altrove, arrivano al vertice con il voto e non sulla punta delle baionette. Il che spiega anche perché non si facciano più le rivoluzioni, né da destra né da sinistra. E perché la politica del “vaffa” serva giusto per arrivare al potere sfruttando il sentimento anti-casta, per essere istituzionalizzata in gran fretta un attimo dopo aver vinto le elezioni.
La seconda è: siamo davvero disposti ad affidarci alla benevolenza dell’algoritmo o del manager anonimo per decidere che cosa vogliamo pensare? È questa la via d’uscita rispetto alla confusione dei milioni di messaggi che ci arrivano da ogni parte grazie a, o a causa dei, nuovi mezzi di comunicazione? È questa grigia medietà, solo in apparenza a prova d’errore, lo stato in cui vogliamo vivere? Tornano alla memoria le parole di Winston Smith: “L’integrità mentale non ha alcun rapporto con la statistica”. Chi era Winston Smith? Il protagonista di “1984”, lo straordinario romanzo che George Orwell scrisse nel 1949 per raccontare l’incubo della società governata dal Grande Fratello. L’entità che nessuno può vedere ma che a sua volta vede tutto e giudica tutti.