L’opposizione della popolazione pontificia alla rivoluzione risorgimentale
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 69/22 del 26 settembre 2022, Santa Giustina
L’opposizione della popolazione pontificia alla rivoluzione risorgimentale
Un nuovo articolo sulla rilettura del mito risorgimentale: sarebbe un’illusione sconfiggere i mali attuali in nome degli stessi principi che li hanno provocati.
L’invasione militare italiana del 1859 e l’opposizione contadina di Fossalta Ferrarese
di Roberto Gremmo – C’è una storia di proteste contadine ancora tutta da scrivere e molti episodi importanti sono rimasti fino ad oggi quasi completamente sconosciuti.
Uno di questi é certamente il moto contadino che nel Ferrarese vide una pacifica comunità rurale opporsi alle prepotenze dei nuovi padroni che pretendevano di ‘fare l’Italia’ sconvolgendo le tradizionali consuetudini di tranquillità e d’armonia.
Alle origini delle proteste paesane c’era stata l’occupazione militare della Romagna delle truppe del generale Cialdini che dopo la vittoria franco-sabauda del 4 giugno 1859 a Magenta avevano occupato stabilmente le pontificie “Legazioni delle Romagne”.
Erano due reggimenti di bersaglieri e bande di irregolari ‘volontari’ che avevano costretto i delegati del Papa a lasciare Bologna e Ravenna. Il 21 giugno la guarnigione austriaca abbandonava Ferrara mentre il delegato papale monsignor Pietro Gramiccia lasciava la città.
Dopo pochi giorni, inatteso, si registrava un sanguinoso conflitto a fuoco con morto.
Il 16 luglio 1859 resterà impresso nella storia della pacifica comunità contadina di Fossalta ferrarese come un triste giorno di tragedia e di lutto.
Fu proprio la sera di quel fatidico sabato che un drappello di soldati irruppe in paese, seminò il panico, venne affrontato dai contadini armati e nel corso dello scontro un pover’uomo rimase nel selciato.
Seguirono ore concitate ed i militari arrestarono decine di ragazzi, anziani e popolani ed il sacerdote Luigi Cotti, ritenuto il vero responsabile di quegli eccessi.
Secondo la versione ufficiale, le truppe italiane sarebbero accorse a Fossalta dopo essere state informate che il prete del paese avrebbe creato una vera e propria banda armata eversiva spingendo alla rivolta aperta i suoi contadini.
La causa occasionale della ribellione sarebbe stata l’imposizione vescovile, non si sa bene da quale ragione motivata, dell’allontanamento del prete dal paese.
Dall’inchiesta risultò comunque che i contadini che avevano affiancato il sacerdote nutrivano una forte avversione nei confronti della patriottica “Guardia Nazionale”, bestia nera di tante altre rivolte contadine.
Il giorno precedente gli scontri don Cotti s’era recato a Ferrara per cercare un accordo coi suoi superiori ma questi non l’avevano accontentato ed egli era stato udito profferire aperte minacce e preannunci di violenze.
Per questa ragione, la sera del 16 luglio era stato mandato a Fossalta un drappello di soldati col preciso incarico di far sloggiare ad ogni costo lo scomodo e focoso sacerdote.
Quando la truppa era giunta in paese, al suono delle campane battute a martello don Cotti e diversi contadini avevano imbracciato i loro fuciloni da caccia, s’erano asserragliati nella chiesa, in canonica e sul campanile mentre gran parte della popolazione aveva rumorosamente manifestato la propria solidarità a quel prete, evidentemente ben voluto ed apprezzato.Giunti sulla piazza, i soldati erano venuti alle mani coi paesani e, nella calca, uno dei militari era stato leggermente ferito alla gamba da una coltellata.
Di fronte a questo comportamento ritenuto subito ‘sovversivo’, il comandante dei soldati aveva ordinato l’assalto al fortilizio paesano ma, secondo la versione ufficiale, i suoi uomini erano stati accolti a colpi di fucile ed avevano dovuto rispondere sparando.
La scarica partita dalla truppa aveva ucciso un uomo.
Presi dal panico, i contadini erano fuggiti mentre venivano rincorsi dai soldati che arrestavano decine di persone, compreso don Cotti.
Per diversi giorni, un ufficiale interrogò testimoni ed i presunti responsabili, e proprio in quell’occasione fu chiaro che le responsabilità non erano tutte d’un prete testardo che non voleva andarsene non spiegavano tutto.
Dietro alla ribellione del paese c‘era un’opposizione rancorosa e profonda al nuovo corso delle cose, piombato nel Ferrarese a sconquassare un’antica consuetudine di tranquillità e d’armonia.
Il movente politico fu ben evidente quando ad aggravare la posizione del parroco concorse un “figlio di famiglia” di Fossalta, tale Antonio Magliati dichiarando che il sacerdote aveva già riunito da giorni del contadini per “promuovere disordini e portare incagli all’attuale Governo, giacchè molti di detta banda, […] fra cui certo Vincenzo sunnomato Canarin andava facendo gravi minaccie nella vita a que’ cittadini che si fossero prestati pel servizio della Guardia Nazionale, dicendo pubblicamente, che di essi ne voleva uccidere tanti da formare un mucchio”. L’autorità governativa spedì i soldati soprattutto dopo aver saputo di quest’avversione politica e fu una tragedia.
Il 18 luglio, ottenuta dal Vicario Generale della Diocesi l’autorizzazione ad accedere nella canonica, il giudice poté assistere all’autopsia del cadavere dell’unica vittima, il sarto trentottenne Paolo Droghetti e dall’esame accurato del cadavere eseguito dal medico condotto di Baura dottor Gaetano Poltronieri vennero constatate quattro ferite d’arma da fuoco; tre alle gambe ed una alla schiena.
I soldati l’avevano ucciso mentre scappava, spaventato ed inerme.
Oltre al prete, considerato ispiratore ed organizzatore del complotto, venivano incarcerati solo sette sfortunati paesani e l’accusa militare chiese di dichiararli colpevoli di rivolta armata e propose di condannarli a cinque anni di lavori forzati; salvo don Cotti che ne avrebbe dovuti scontare sette.
Conscio del grave pericolo che stava correndo il povero prete, l’avvocato ferrarese Enrico Famiani presentò subito una lunga memoria difensiva, eccependo innanzi tutto la regolarità dell’istruttoria e l’incompetenza delle autorità militari a giudicare dei civili, ricordando che in passato l’intera Europa aveva “inorridito alla vista di Sentenze pronunciate da Tribunali militari Austriaci. Perché? Perché si viddero condannati sudditi Pontificj, in base del Codice militare Austriaco. Le sentenze erano eminentemente ingiuste, la coscienza di tutti gli onesti protestava, e protestò contro le inique condanne. Eppure gli Austriaci avevano un Governo militare in Ferrara, nella Città era stata pubblicata la legge Marziale, che durò per quasi nove anni. Vi era forse una di quelle apparenti legalità che strozzano la giustizia; ma appunto per questo il sentimento della giustizia scritto nel cuore dell’uomo dalla mano di Dio, si levò alto contro questi assassini legali – Ora, diciamolo pur francamente, nel caso nostro mancherebbe anche ogni e qualunque apparenza di legalità – Quì nel 16 Luglio non era la guerra, non truppe in piedi di guerra, non stato di assedio, non pubblicata legge marziale”.
Ribaltando in gran parte la versione ufficiale fornita dal capitano Cavanna, l’avvocato fece presente che “nessuno degli imputati si oppose, si rivoltò alla Forza militare” ed anche dalla Casa Parrocchiale, “unico luogo ove furono rinvenute armi, non uscì alcuna archibuggiata, non alcuna minaccia” raccontando tutta un’altra storia.
Aveva ragione l’ufficiale quando si presentava come il liberatore d’un paese trasformato in covo di ribelli da un individuo pronto a tutto o, al contrario, la verità stava nella ricostruzione proposta dal difensore che descriveva i contadini di Fossalta in preda al panico vedendo la loro borgata assalita da una forza militare scatenata che li aveva costretti a difendersi in qualche maniera, asserragliandosi nella loro parrocchia?
Dall’accorata difesa spuntavano sullo sfondo anche misteriosi personaggi che in Fossalta stessa sarebbero stati tenaci oppositori del sacerdote e fautori del suo allontanamento; ambigui e pericolosi mestatori che avrebbero fatto di tutto per osteggiare quel prete troppo amato dai loro compaesani.
Forse uno di questi avversari era proprio quel “figlio di famiglia” che nel corso dell’inchiesta aveva insistito nel descrivere il prete e i suoi più fedeli parrocchiani come una banda armata di rivoltosi pronti a tutto.
Quelli che il patrocinatore di don Cotti descriveva invece come un uomo di Chiesa ingiustamente preso di mira e dei timorati contadini spaventati dall’irrompere nella loro oasi rurale d’una violenza militarista mai vista prima.
Nessuno si preoccupò di verificare ulteriormente quale delle due contrastanti versioni fosse quella veritiera.
Tuttavia, le obiezioni del legale erano certamente fondate e, per di più, un processo contro un prete al tribunale militare rischiava seriamente di nuocere alla reputazione di governo liberale e pacificatore che le autorità italiane volevano mantenere.
Occorreva perciò, in qualche modo, uscire dal tortuoso percorso giudiziario in cui la vicenda di Fossalta rischiava di gettare schizzi di fango sull’intera compagine d’occupazione italiana.
Con mossa scaltra ed abile, il ministro dell’Interno per le Romagne si tolse in fretta d’impaccio, concedendo la grazia ai sette computati del prete alla sola condizione che facessero “atto di sottomissione di ben regolarsi per l’avvenire”.
Dal gesto di clemenza restò escluso solo don Cotti e questo per la sconcertante ragione che nel frattempo era stato giudicato malato di mente e rinchiuso nel manicomio di Sant’Orsola a Ferrara.
Tuttavia, proprio nelle ore in cui i suoi presunti complici venivano graziati, il primario della casa di cura dov’era ristretto il prete di Fossalta, professor Domenico Gualandi comunicava alle autorità governative petroniane che “il detenuto sacerdote D.n Luigi Cotti trova[va]si colà sufficientemente ristabilito dallo stato di alienazione mentale da cui trovavasi affetto, e che dal Direttore di quel Pio Stabilimento si fa[ceva]no delle premure perché si provved[esse] al di lui ritiro”.
Se davvero c’era stata, la guarigione doveva aver qualcosa di miracoloso, per esser giunta così in fretta.
Intanto però, la stampa cattolica denunciava la triste situazione di quel povero prete e persino a Torino, “L’Armonia” gettava in faccia ai nuovi governanti italiani il delitto d’aver ristretto come demente il sacerdote mentre proclamavano di rappresentare il regno di bengodi e della massima libertà:
“[…] per confessione medesima del sig. Gioachino Napoleone Pepoli sedici sono i preti nelle Romagne, che dal 22 di giugno al primo di novembre vennero gettati in carcere per non aver voluto tradire la propria coscienza, o far plauso alla rivoluzione […] Confessano i rivoluzionari delle Romagne d’aver arrestato e gettato in prigione […] il Rev.do D. Luigi Cotti, curato di Fossalta nella provincia di Ferrara, perchè era ‘esaltatissimo’, e avea ‘fatto resistenza alla forza pubblica’. Ben si capisce quanto terribile resistenza abbia potuto fare un curato ! Ma il suo delitto consisteva nell’essere ‘esaltatissimo’. Finora nel Codice penale pontificio non si conosceva questo crimine dell’‘esaltazione’. Forse nelle riforme che si chiedono al Papa v’è anche un articolo contro gli ‘esaltatissimi’ ?
Del resto il povero curato di Fossalta trovasi oggidì rinchiuso a Ferrara nel manicomio; alcuni dicono perché, in seguito ai maltrattamenti patiti, il cervello gli diè di volta; altri pretendono perché, sano di mente, fu rinchiuso co’ pazzi per torturarlo di più, e prendersi giuoco di lui. Lasciamo la verità a suo luogo: certo è che l’infelice curato è oggidì rinchiuso a Ferrara co’ pazzi”.
Per una combinazione temporale forse non del tutto casuale, lo stesso giorno in cui “L’Armonia” pubblicava la sua denuncia, l’Intendente di polizia di Ferrara comunicava alle autorità governative il proprio benestare per il “ritorno ai propri focolari” di don Cotti purché non mettesse più piede a Fossalta ma si recasse al paese d’origine di Copparo dove sarebbe stato ospitato dal fratello.
Venne comunque “interdetto al mentovato Sacerdote di ripigliare il possesso della Parrocchia di Fossalta” dove l’ordine regnava sovrano.
Solo nel camposanto la tomba dello sfortunato Droghetti ammoniva sui tragici risultati della spedizione militare delle truppe italiane.
Ma non era finita.
Disordini antigovernativi scoppiavano il 30 agosto a Solarolo. Il 25 ottobre fu necessario mandare una compagnia di linea a Goro “per far rispettare dalla popolazione lo stemma sardo”, a Bologna si aprì un duro contenzioso fra il Parroco della chiesa dei Celestini e le autorità italiane che pretendevano di occupare i suoi locali; il parroco di San Paolo in Aquilano venne sospettato di organizzare un vero e proprio complotto politico, il Vescovo di Bertinoro manifestò apertamente la propria opposizione al governo, due ex gendarmi di Codigoro erano segnalati come “fautori principali du disordine” a Codigoro ed “indizi d’avversione al Governo” si registravano a novembre a Castel San Pietro.
La nuova Italia finalmente libera nasceva anche così.