Le talebane di Gerusalemme
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 63/21 dell’8 agosto 2021, Natività di Maria
Le talebane di Gerusalemme
Segnaliamo un articolo sul fenomeno delle donne ebree di Gerusalemme che indossano il burqa. Gli autori dell’articolo hanno il merito di informare sul caso, tuttavia lo minimizzano e insistono sulla contrarietà delle autorità religiose giudaiche. Dimenticano però di ricordare la condizione femminile presso i giudei ortodossi e non trovano nessun motivo di sdegno quando parlano del trattamento riservato dai fanatici della stella di Davide a queste donne, equiparate ai cristiani e agli arabi in generale: “I religiosi sputano in terra davanti a loro. Le insultano e le chiamano “sporca araba” o “galachteh” (la parola yiddish per “cristiana”)”.
Infatti nelle vie di Gerusalemme è uso comune degli ebrei ortodossi di sputare davanti ai sacerdoti (cosa ne pensano i politici del centrodestra italiano, così lontani dalla regalità sociale di Cristo e così vicini al sionismo? ). Nel 2012, persino la “Anti defamation league” (!!!) chiese l’intervento del Gran Rabbinato di Israele contro questa ignobile pratica. https://www.lastampa.it/blogs/2012/01/15/news/basta-sputi-per-favore-1.37275529
Le ebree ultraortodosse che inquietano Israele
La sagoma nera è immobile. Si è fermata sul marciapiede, davanti alle strisce pedonali. Il corpo è nascosto dalla testa ai piedi. Non si vedono nemmeno gli occhi, s’indovinano soltanto. Quando il semaforo finalmente diventa verde, il fantasma attraversa la strada con passo deciso. Sembra fluttuare. Anche le scarpe sono coperte dal tessuto della veste. Non è raro incontrarlo nelle strade di Gerusalemme intorno al quartiere ultraortodosso di Mea Shearim. I fantasmi lì fanno parte del paesaggio. Più che spaventare, incuriosiscono. Sotto quelle vesti si nascondono delle donne ebree. I media israeliani le chiamano “le talebane”. Loro preferiscono essere definite “donne modeste”.
Il fenomeno, marginale, ha fatto la sua comparsa all’inizio degli anni 2000 nella comunità degli haredim (letteralmente, i “timorati di Dio”) che si attengono con la massima osservanza alle regole di pudore imposte dal Talmud, per anticipare la venuta del messia, e da allora ha continuato a espandersi.
Adel vive in un caseggiato moderno con le pareti umide, vicino al mercato di Mea Shearim, in un quartiere di stradine strette e passaggi ombrosi. Sulle scale dell’edificio, gli abitanti parlano yiddish. Lei è nata in Colorado, da una famiglia di intellettuali sionisti religiosi. Ha fatto lo “switch”, così lo chiama, dopo un divorzio. Adel è una “donna modesta” ma il suo grado di osservanza non arriva al punto di coprire completamente il viso. Sua figlia maggiore Sara, vent’anni, invece porta il “burqa made in Israel”. La madre l’ammira e ne è gelosa. “Non è un burqa, perché non si vedono gli occhi,” dice Adel a proposito del velo integrale ebraico. “Gli occhi sono lo specchio dell’anima: se un uomo ti vede gli occhi, ti vede l’anima; e se una donna viene guardata è incoraggiata a guardare, e questo attrae gli uomini,” aggiunge. Sara ha messo il velo all’età di quindici anni. Ha studiato in una scuola di Gerusalemme dedicata all’educazione delle “donne modeste”.
Proselitismo dell’abbigliamento
Piccola e robusta, Adel non parla con nessun uomo ad eccezione del marito. “Che amica sarei se permettessi al marito di un’altra di pensare a me? Io sono per la pace familiare e rifiuto le trasgressioni. Una donna modesta deve occultare le sue forme quando esce ed essere una regina in casa per il suo sposo,” dice. Adel lavora a domicilio. Vende alle sue conoscenti profumi, cosmetici e gioielli, che tiene in una vetrina celata da una tenda. Una volta si cuciva gli abiti da sola ma, quando il fenomeno ha iniziato a prendere piede, a Mea Shearim è stato aperto un negozio di abbigliamento per donne modeste.
Due sono gli accessori indispensabili per rispettare la tendenza. Il redid, che scende dalla parte alta del collo fino a coprire il petto, alla maniera delle religiose carmelitane, e il mantello, in due versioni: una che copre il viso, l’altra che lo lascia scoperto. Il mantello può avere lunghezze diverse: due metri, sei metri, quindici metri, a seconda dell’interpretazione dei testi religiosi. Per tenere i mantelli più lunghi, quelli indossati dalle donne più radicali, la ventosa di uno sturalavandini viene fissata in cima alla testa mediante un elastico. Il manico di legno dell’attrezzo viene piallato. Senza questo “cappello a punta”, il mantello di 15 metri cadrebbe a terra, quando camminano.
Tali, un’amica di Adel, madre di otto figli, proviene da una famiglia israeliana laica. Ha studiato sociologia e ha insegnato a lungo in un liceo prima di unirsi a questo movimento informale che fa proseliti con l’abbigliamento. È alta, forse bionda o castana.
“I grandi giusti dicono che ogni parte del nostro corpo appartiene solo al marito. Il collo è attraente come quello di un cigno e quando l’occhio vede, il cuore desidera,” spiega. “Gli uomini hanno cattive inclinazioni, io devo proteggere la mia anima.” Invoca un ritorno alle fonti della religione e ricorda, con l’ausilio di immagini d’epoca, che a Gerusalemme, all’inizio del secolo scorso, le donne ebree portavano ancora il velo. “L’arrivo delle riviste di moda e della società dei consumi ha mandato tutto all’aria” afferma.
Matrimonio combinato
F. una francese di sessant’anni, educata in un convento di suore nei territori d’oltremare, si è sentita attratta dall’ebraismo. In Francia faceva la puericultrice, poi è partita per Israele per andare a convertirsi in un centro di formazione francofono di Gerusalemme. Ha trovato marito grazie a un matrimonio combinato. Sua figlia, che oggi ha ventun anni, quando era piccola aveva paura di lei. “Era traumatizzata perché io ero diversa dalle altre mamme. All’epoca però non coprivo ancora gli occhi,” ci racconta F.. La figlia ha frequentato la scuola per le donne modeste. Indottrinata, ha finito per abituarsi al velo integrale. Oggi si vela completamente e il suo esempio ha convinto la madre a coprirsi anche gli occhi.
Nelle strade dei quartieri ultraortodossi, come in quelle della città laica, i fantasmi neri sono piuttosto malvisti. Le “talebane” non sono accettate, spesso vengono insultate. “Mia figlia viene regolarmente trattata come una terrorista. Le chiedono con disprezzo perché si veste come un’araba,” dice Adel. “Per evitare il rischio di essere scambiata per un’araba, io esco con il velo integrale solo se sono accompagnata da mio marito o da mio figlio. Se mi trovo sull’autobus da sola, telefono a qualcuno perché mi sentano parlare ebraico, oppure recito i salmi,” racconta F..
L’etnografa Noam Baram ha constatato lo stigma che le accompagna. “I religiosi sputano in terra davanti a loro. Le insultano e le chiamano “sporca araba” o “galachteh” (la parola yiddish per “cristiana”, N.d.R.). La gente le prende in giro,” racconta. Può capitare anche che si verifichino degli incidenti. Nel 2014, nei pressi del muro del pianto, la polizia israeliana ha aperto il fuoco su un’appartenente alla setta e l’ha ferita gravemente. Non si era fermata al controllo di sicurezza.
Ventisette strati di tessuto
Il grande pubblico le ha scoperte nel 2008, in occasione della vicenda della rebetsin Keren. Bruria Keren e suo marito sono stati arrestati per abusi sui minori e condannati a pene detentive. “Bruria Keren era a capo di un gruppo che praticava sevizie sui minori. Aveva una personalità molto forte. Durante il processo ha rifiutato di togliere il velo,” ricorda Yair Nehorai, difensore del marito. Da quell’esperienza, l’avvocato ha tratto un romanzo . A suo dire, Bruria Keren faceva la doccia vestita. Indossava ventisette strati di tessuto, faceva fatica a muoversi senza l’aiuto di qualcuno. “Il suo pubblico, composto da donne insicure, trovava attenzione presso di lei. Il mio parere è che la questione centrale per queste donne sia la paura della sessualità. Siamo al confine fra religione e psichiatria. Decidono volontariamente di nascondersi sotto abiti neri e di costruirsi attorno dei muri. Però in fin dei conti ne hanno il diritto”.
Altri casi di pedofilia, incesto e matrimoni forzati sono stati segnalati qua e là. Il movimento è fortemente criticato negli ambienti religiosi. Qualche anno fa il consiglio rabbinico ha emesso un primo decreto che proibiva l’uso del velo integrale. Secondo il consiglio, la Torah non lo ha mai prescritto. L’Edah Haredit, una federazione di gruppi ortodossi autonomi dotata di tribunali rabbinici propri, ha emesso un editto in cui si afferma che l’uso del mantello è un feticcio sessuale tanto deviante quanto indossare abiti leggeri. “C’è il rischio reale che, esagerando, si faccia il contrario di quanto è prescritto, arrivando a gravi trasgressioni in materia sessuale,” ha spiegato un rabbino. Ma non è servito a niente.
Ci sono pochi dati verificabili sulla galassia delle “modeste”. Sono concentrate nei quartieri haredim di Gerusalemme e di Bet Shemesh. Secondo gli esperti, le persone coinvolte sono centinaia, addirittura migliaia se si contano le loro famiglie. “Sembra che questo sviluppo rispecchi la crescente islamizzazione delle popolazioni musulmane, iniziata in Egitto negli anni ’70. Certo, è possibile trovare immagini dell’inizio del XX secolo che ritraggono donne ebree molto coperte, alcune avevano persino griglie di pizzo davanti al viso. Ma nella maggior parte dei casi, per effetto della modernizzazione, anche se il collo restava nascosto il viso era scoperto”, spiega Noam Baram. Curatrice di mostre, nel 2019 ha allestito al Museo di Gerusalemme la mostra “Veiled Women in the Holy Land”, dedicata alle donne musulmane, alle suore cristiane e alle ebree modeste. Ha condotto circa sessanta interviste a donne modeste e cerca di evitare i pregiudizi. “Mi sono interessata alle donne ebree, alle donne musulmane e alle suore cristiane. Si somigliano tutte nell’abbigliamento, ci sono solo piccole varianti, le donne ebree sono le più assertive nel rivendicare la loro differenza”, dice l’etnografa. Poi si domanda: “Cosa sta succedendo nella nostra società, perché nascono fenomeni di questo tipo? Perché il corpo femminile sta diventando il campo di battaglia di lotte ideologiche e religiose? Non posso dimenticare l’atmosfera messianica in cui vivono queste donne. Esprimono profonda angoscia e paura, emozioni molto pericolose”.
Copyright Le Figaro/Lena-Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Alessandra Neve.