Le ingiustizie e discriminazioni in Terra Santa
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 81/18 del 29 ottobre 2018, ss. Simone e Giuda Taddeo
Le ingiustizie e discriminazioni in Terra Santa
Società St. Yves. Dalla giustizia la pace
È l’unica ong di matrice cattolica che offre tutela legale ai palestinesi in Terra Santa: la Società St. Yves, attiva da 27 anni e con due sedi, a Gerusalemme e Betlemme, è sempre più un riferimento in casi di ingiustizie e discriminazioni.
Penalizzazioni nell’assistenza sanitaria, mancati permessi per entrare in Israele, demolizioni di case e scuole, confische di terre: sono i problemi di palestinesi e residenti a Gerusalemme con cui ha a che fare ogni giorno la Società St. Yves. Fondata nel 1991, è l’unica organizzazione di matrice cattolica per i diritti umani in Terra Santa. Fu il patriarca latino dell’epoca, mons. Michel Sabbah a volerla, su proposta di colei che ne fu poi la prima direttrice, Lynda Brayer. «Eravamo alla fine della prima intifada e c’era bisogno di organizzazioni per i diritti umani», spiega l’attuale direttore, l’avvocato Raffoul Rofa.
Il primo caso gestito da St. Yves fu nel 1991 contro il ministero della Difesa israeliano. Si chiedeva che anche ai palestinesi della Cisgiordania fossero distribuite le maschere antigas, visto che si temeva un attacco chimico dall’Iraq. La Corte suprema accolse la petizione e ordinò ai militari di distribuire maschere antigas. Da quel momento è iniziata l’azione dell’organizzazione che ogni anno fornisce assistenza legale a migliaia di persone in diversi ambiti, dalla salute, alla libertà di movimento, alle discriminazioni in materia fiscale. Oggi «St. Yves» conta venticinque impiegati, tra cui dieci avvocati, nei due uffici di Gerusalemme e Betlemme.
L’organizzazione prende il nome da sant’Ivo di Bretagna, un aristocratico e dottore in Legge del XIII secolo, famoso difensore dei poveri e considerato il patrono degli avvocati. «Operiamo a Gerusalemme Est – continua Rofa – e nell’Area C della Cisgiordania meridionale (sottoposta al pieno controllo dell’amministrazione militare israeliana – ndr). A Gerusalemme Est ci occupiamo delle questioni legali relative alla residenza dei palestinesi e alle riunificazioni familiari». Dopo la Guerra dei sei giorni (1967), Israele ha infatti concesso ai palestinesi di Gerusalemme lo status di «residente permanente», ma una legge emanata successivamente stabilisce che il palestinese che abbia lasciato Gerusalemme per sette anni, non necessariamente continui, o che abbia acquistato un’altra cittadinanza per naturalizzazione, possa vedersi revocato il suo status di residente.
Il direttore della Società St. Yves spiega che dal 1967 ad oggi, 15 mila palestinesi hanno perso il diritto di vivere a Gerusalemme. Solo tra aprile 2017 e maggio 2018 il centro per i diritti umani ha chiuso 4.838 casi sugli oltre 5.100 in gestione: consulenze, servizi legali, attività di sensibilizzazione su casi di pubblico interesse. «Lavoriamo nelle strade, a contatto con la gente – spiega con orgoglio l’avvocato Rofa -. A volte le persone ci chiamano direttamente, altre volte siamo noi a muoverci per sessioni di sensibilizzazione. Gran parte della nostra missione è uscire e informare la popolazione dei propri diritti. Inoltre sollecitiamo il sostegno internazionale».
Spesso la Società St. Yves affronta casi di discriminazioni, come quella dei pagamenti per l’assicurazione sanitaria statale ai palestinesi di Gerusalemme. Non molto tempo fa, infatti, lo Stato di Israele, attraverso il ministero della Salute, decise di concedere l’assicurazione sanitaria pubblica a quei palestinesi che hanno permessi di ricongiungimento familiare con residenti permanenti a Gerusalemme. «È stata un’ottima decisione – spiega Rofa -, ma c’è stata una discriminazione nei pagamenti». I palestinesi coniugati con cittadini israeliani devono pagare inizialmente circa 1.700 shekel (poco più di 400 euro) e poi mensilmente intorno ai 500 shekel (118 euro). I palestinesi sposati con i residenti permanenti, invece, dovrebbero versare come investimento iniziale quasi 8.000 shekel (1.900 euro) e mensilmente 500 shekel. Sollecitata da diverse segnalazioni, St. Yves si è mossa prontamente: «Abbiamo fatto presente il problema al ministero della Salute e ci hanno detto che era tutto “secondo la legge”. Allora abbiamo portato il caso davanti alla Corte suprema che, a marzo, ha imposto al ministero della Salute di approfondire le nostre richieste e vedremo che cosa accadrà nei prossimi mesi. La questione riguarda migliaia di persone».
Una delle vicende più note di cui si è occupata la Società St. Yves è il caso Cremisan. Le proteste e le azioni legali condotte tra il 2004 e il 2015 per impedire la costruzione del muro di separazione nella valle di Cremisan, nei pressi di Betlemme, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato: il muro è stato costruito, ma c’è un varco di 225 metri per collegare il convento salesiano e la scuola con Betlemme, un varco che potrebbe essere chiuso in qualunque momento. «I proprietari di terre private, invece, non hanno avuto questa fortuna. Le loro terre sono dietro il muro e possono accedervi solo attraverso un “varco agricolo” – spiega Raffoul Rofa -. È una porta costruita nel muro, che si può aprire solo in certi momenti dell’anno, durante il raccolto, ma occorre il permesso. È una grande ingiustizia».
Nell’Area C della Cisgiordania, la Società St. Yves lavora spesso per impedire la demolizione di edifici, come nel caso di una scuola a est di Betlemme, vicina a un insediamento e che perciò è stata già demolita. L’Autorità palestinese l’ha ricostruita e ha chiesto assistenza legale a St. Yves, che ha risposto prontamente con una petizione alla Corte suprema. In questo caso con successo: la scuola è ancora in piedi. Spesso l’assistenza ai palestinesi della Cisgiordania riguarda i permessi di movimento, molte volte negati fornendo motivi di «sicurezza». Spetta allora alla Società di St. Yves cercare di capire le ragioni effettive: può essere per omonimia con persone considerate pericolose, per familiari coinvolti in problemi giudiziari o per aver preso parte a manifestazioni di protesta.
Attraverso il lavoro degli avvocati, si cerca di denunciare inoltre le «punizioni collettive», come nei casi degli attacchi a militari israeliani. Ogni volta che accadono, la polizia impone la chiusura di negozi e strade oppure chiede alla gente di rientrare a casa. «Noi condanniamo ogni atto di violenza. Se qualcuno commette un errore, crediamo che debba essere punito, ma individualmente, senza mettere di mezzo l’intera collettività», sottolinea l’avvocato Rofa. «Crediamo che il nostro lavoro contribuisca alla pace e non lo facciamo perché odiamo qualcuno – chiarisce il direttore -. Non odiamo nessuno, ma siamo qui per aiutare i poveri e gli oppressi. Questa è la nostra missione».
(Eco di Terrasanta, n.5 settembre/ottobre 2018, pagg. 8 -9)