2018 Comunicati  10 / 01 / 2018

Quando la repressione non interessa ai media

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 4/18 del 10 gennaio 2018, Sant’AldoIMG_0196 copia

Quando la repressione non interessa ai media

In Cisgiordania una giustizia sbilanciata

Il caso di Ahed Tamimi, una sedicenne palestinese processata per percosse a un militare israeliano. Per gli stessi reati israeliani e palestinesi subiscono pene diverse.

Il primo gennaio scorso il tribunale militare israeliano di Ofer, Cisgiordania, ha presentato dodici diverse accuse nei confronti di Ahed Tamimi. Sedici anni, residente nel villaggio di Nabi Saleh, noto per la lunga resistenza popolare contro il muro e l’espansione degli insediamenti ebraici, Ahed è conosciuta da tutti quelli che hanno trascorso qualche tempo nei Territori Occupati: fin da bambina occupa le prime file delle marce di protesta del venerdì, insieme alle donne e i bambini di Nabi Saleh, in mano una macchina fotografica o un cartellino rosso da mostrare ai soldati israeliani.

Ora è diventata un simbolo anche al di fuori dei confini palestinesi. Dal 19 dicembre è in prigione, arrestata in un raid notturno dall’esercito con l’accusa di aver preso a calci un soldato durante un’incursione nella quale il cugino di 14 anni Mohammed è stato gravemente ferito alla testa.

Insieme a lei, dietro le sbarre, sono finite anche la madre Nariman e la cugina Nour, liberata su cauzione il 4 gennaio. Su Ahed pendono accuse gravi, relative anche ad episodi precedenti: aggressione ai soldati, incitamento alla rivolta, lancio di pietre, interferenza con i doveri dell’esercito. Rischia dai 12 ai 14 anni di prigione, secondo le “stime” di chi si intende di sistema legale israeliano nei Territori Palestinesi Occupati.

Un sistema particolare perché fa distinzione tra i residenti: ai palestinesi si applica la legge militare, ai coloni (circa 600 mila tra gli insediamenti di Gerusalemme est e quelli in Cisgiordania) si applica la legge civile. Corti diverse e pene diverse. Nel caso di Ahed Tamimi a comparare la disparità di trattamento è il quotidiano israeliano Haaretz che mette a confronto il reato di cui è accusata – calci a un soldato – con lo stesso crimine commesso da Yifat Alkobi, colona israeliana di Hebron, nota sia all’esercito che ai palestinesi per le frequenti aggressioni di cui è protagonista.

A differenza della giovane Tamimi, che ha la fedina penale senza macchia, «Alkobi è stata già condannata cinque volte per lancio di pietre, assalto a ufficiale di polizia e per disordini, ma non è stata mai detenuta». Nonostante ciò, aggiunge Haaretz, quando il 2 luglio 2010 prese a calci un militare – proprio come Ahed – è stata fermata per poche ore e subito rilasciata.

Due pesi e due misure che da anni le organizzazioni israeliane per i diritti umani monitorano e combattono. Nel maggio 2016 una delle ong israeliane più note, B’Tselem, annunciò la resa: non avrebbe più presentato denunce contro coloni e soldati al sistema giudiziario israeliano, perché inutili (nella stragrande maggioranza dei casi neppure esaminate) e perché strumentalizzate dalle autorità israeliane per dimostrare l’esistenza di uno Stato di diritto.

I numeri parlano da sé: se di fronte ad una corte militare israeliana il 99,74 per cento dei palestinesi imputati viene condannato, nel caso di violenza da parte dei coloni la percentuale crolla sotto il 2 per cento (dati dell’associazione israeliana Yesh Din: oltre l’85 per cento dei crimini commessi da israeliani su palestinesi vengono chiusi senza inchiesta, l’1,9 per cento con una pena per il responsabile). Eppure, fa sapere l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle questioni umanitarie (Ocha), le violenze dei coloni sono in costante crescita: nei primi sei mesi del 2017 si sono registrati tre morti palestinesi e 48 feriti, 2.700 alberi di ulivo danneggiati, 52 auto distrutte. Ovvero l’86 per cento di casi in più rispetto allo stesso periodo del 2016.

A monte sta quella che l’Associazione per i diritti civili in Israele (Acri), definisce «discriminazione istituzionalizzata», ovvero la creazione di due diversi sistemi di giustizia, separati. Sui palestinesi vige la legge militare, gli ordini militari (circa 2.500 emessi dal 1967), i decreti dell’esercito; sui coloni la giurisdizione è civile sebbene risiedano nello stesso territorio. Una violazione del diritto internazionale e anche delle sentenze della stessa Corte suprema israeliana che considera il doppio sistema legale in contraddizione con i principi fondamentali del diritto moderno.

Gli effetti sono concreti: sotto il sistema militare atti come il lancio di pietre e aggressioni alle truppe vengono considerati reati gravi, punibili con un minimo di 5 anni di prigione; crimini come l’omicidio colposo sono punibili con l’ergastolo (contro un massimo di 20 anni nel sistema civile). Emblematico è il caso del caporale Elor Azaria, che nel 2016 a Hebron uccise a sangue freddo un palestinese ferito a terra e immobile – dopo aver assalito, ferendolo, un soldato – e condannato a soli 18 mesi di prigione). Il processo militare non può avere una durata superiore ai 18 mesi, contro i 9 del sistema civile; i palestinesi sono considerati minorenni fino ai 16 anni di età, gli israeliani fino a 18; l’accusato può restare in detenzione senza vedere un giudice per un massimo di 18 giorni (contro le 24 ore del sistema civile) 90 giorni senza vedere un legale (contro 48 ore) e un periodo di tempo illimitato prima di conoscere il reato di cui è accusato (contro 30 giorni).

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