Il diario di un vescovo cattolico nell’inferno maoista
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 64/16 del 14 settembre 2016, Santa Croce
Il diario di un vescovo cattolico nell’inferno maoista
Il 9 settembre 1976 moriva uno dei più grandi criminali della storia, Mao Tse-tung, responsabile della morte di decine di milioni di persone, tra cui moltissimi martiri della Chiesa Cattolica. La cultura ufficiale non parla mai dei numerosi e terribili campi di concentramento comunisti presenti in Europa e in Asia, dove morirono milioni di persone. Vogliamo rendere omaggio a tutti i cattolici perseguitati dal carnefice cinese con alcuni brani del diario di mons. Gaetano Pollio, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, poi arcivescovo di Kaifeng, arrestato e costretto ai lavori forzati per sei mesi nel 1951 e infine espulso.
“Quella Messa aveva un riflesso di Cielo” di Gaetano Pollio, arcivescovo di Kaifeng
Era il 1951. In quel carcere annesso all’ufficio della polizia, dove i cristiani pregavano, soffrivano e s’immolavano, giorno dopo giorno, per il trionfo della fede, ebbi la consolazione di rivivere scene di catacombe.
Ebbi anzitutto il conforto di poter celebrare clandestinamente la santa messa. In cella mi fu dato uno sgabello, e io pensai: questo sarà il mio altare. Avevo una scodella per bere l’acqua bollente, che in carcere ci veniva passata due volte al giorno, e dissi: questa sarà il mio calice. Essendo io in quei giorni sotto accuse e processi di carattere politico, i dirigenti comunisti, per timore che mi ammalassi o morissi in carcere, e fossero in tal modo privati della gioia di vedermi fucilato, permettevano che mi venisse portato del pane di frumento da un catechista della diocesi, e io lieto: un boccone di questo pane sarà la mia ostia.
Che cosa mancava ancora per la celebrazione della messa? Mancava il vino. Con uno stratagemma riuscii ad avere anche il vino. In Cina non esiste vino o aceto di uva, perché sia l’uno che l’altro sono ricavati da cereali. Chiesi al capo-carceriere una bottiglia di aceto di uva quale medicinale perché – dissi – un po’ di aceto preso a digiuno mi avrebbe dato forza. Il capo fece chiedere l’aceto di uva; i miei missionari capirono e consegnarono una bottiglietta di vino da messa. La bottiglietta fu esaminata dai giudici, che dichiararono essere aceto il contenuto.
E così ben quattro volte riuscii ad avere il vino. Vestito da galeotto, senza paramenti, senza tovaglie e lumi, in piedi, o seduto a terra davanti a quello sgabello, offrivo su di un pezzo di carta o nella palma della mano un boccone di pane, offrivo in quella tazza un po’ di vino e continuavo la messa, dal prefazio fino alla comunione. Ero riuscito ad avere anche la messa della Vergine e il canone stampati su alcuni foglietti, nei quali i missionari avvolgevano il pane, e potei celebrare molte volte il santo sacrificio dall’inizio alla fine. Purtroppo un giorno una sentinella, facendo perquisizione nella cella, scoprì quel foglietti e li stracciò, ignorandone però il contenuto.
Celebrai cinquantanove volte, sempre eludendo l’attenzione delle sentinelle, le quali più volte penetrarono improvvisamente in cella mentre celebravo, ma non si accorsero mai che compivo l’atto più sacro che esista; ero in piena osservanza dei regolamenti polizieschi. La messa celebrata in quelle condizioni, in un carcere dove i persecutori comunisti imperversavano nella loro lotta satanica per piegare i cristiani, quella messa, dico, aveva un riflesso di cielo.
La bambina di nome “Piccola bellezza”
Otto delle ragazze che si erano mostrate eroiche nella difesa della fede furono imprigionate e rinchiuse nella cella accanto alla mia. Tra esse c’era la mamma di una bimba di quattro anni, di nome Siao Mei, “Piccola bellezza”. Quelle eroiche donne volevano comunicare con me. Come fare? Pensarono alla bimba. Chiesero al capo-carceriere il permesso, solo per la piccola, di poter lasciare la cella qualche ora al giorno per respirare aria migliore.
Data l’angustia della cella e la gracilità della bimba, il permesso fu concesso. E Siao Mei, nel cortile del carcere, quando le sentinelle erano un po’ lontane dalla mia porta, si avvicinava e attraverso la fessura, scandendo le parole, mi diceva: “Nostro vescovo, come stai? La mamma e le zie mi mandano a salutare. Che cosa devo dire loro?”. E io: “Piccola bimba, di’ alla mamma e alle zie di non temere, di essere forti e di recitare tanti rosari”.
Eucaristia dietro le sbarre
La cella dove erano detenute le otto ragazze e Siao Mei era divenuta un santuario: in essa la quotidiana sofferenza era santificata e più volte l’ostia consacrata vi poté penetrare furtivamente. Non essendo sotto processo, ma solo sotto interrogatori che avevano lo scopo di estorcere capi di accusa contro di noi, le ragazze potevano ricevere il vitto dai parenti, tramite i carcerieri. I miei missionari pensarono di fare giungere loro l’eucaristia, conforto e forza del nostro pellegrinaggio terreno.
I pani in Cina sono piccoli, fatti a forma di cono, cotti a vapore acqueo, tutta mollica, senza scorza; facendovi un’incisione, facilmente vi si può nascondere qualche cosa piccola e sottile. I missionari in questi pani nascondevano alcune particole consacrate; i pani poi venivano portati al carcere dai parenti delle ragazze e consegnati ai carcerieri, i quali li portavano in cella. Le eroiche detenute spezzavano i pani e vi trovavano le ostie consacrate e poi con le proprie mani si comunicavano.
Erano certo i giorni più lieti quelli in cui Gesù penetrava in quella cella per santificarla e per dare loro nuova forza. In quel tetro carcere passammo parecchie feste: erano giorni di dolci memorie religiose, di speranza nella vittoria della Chiesa, di gioia di offrire a Gesù i propri patimenti. Tali furono i giorni dell’Ascensione, di Pentecoste, del Corpus Domini, dei primi venerdì e sabato del mese e di altre domeniche. Nella mia cella scendeva Gesù e tramutava nel corpo e sangue suoi preziosissimi un pezzetto di pane e poche gocce di vino messe in una scodella, mentre nell’altra cella Gesù penetrava, proprio grazie alle mani di gente che lo odiava, per trovare cuori amici e fedeli.
Ogni volta che quelle testimoni della fede ricevevano l’eucaristia lasciavano una particola in un pane, e lì sedute sulle stuoie facevano adorazione tutto il giorno in silenzio. Era proibito pregare a voce alta in carcere, ma da quei cuori la preghiera si elevava calda e penetrava nei cieli.
Quante volte ho pensato: quella lurida cella che nascondeva il Re dei re era più preziosa delle nostre chiese, troppo spesso disertate. In un’appassionata e totale dedizione quelle donne manifestavano il loro amore a Gesù, la loro fedeltà: morire ma non piegarsi a un governo ateo, morire ma non apostatare.
A sera, quella di loro che non si era comunicata al mattino consumava l’ultima particola. L’adorazione cessava, le tenebre della notte cadevano, nuove lacrime e gemiti si sarebbero ascoltati, ma il fervore dei nostri animi continuava e cresceva il proposito di immolarsi come Gesù.
Il viatico portato dal piccolo angelo
Un giorno le cristiane languenti nella cella vicina alla mia ebbero un gesto degno delle loro sorelle dei primi secoli della Chiesa. Nel terzo cortile del carcere era detenuta una loro amica, Giuseppina Ly, che per la sua fede e il suo coraggio era stata relegata in una cella umida e oscura. Le donne pensarono: bisogna mandarle l’eucaristia.
Come fare? Pensarono ancora alla piccola Siao Mei. Per alcuni giorni la istruirono bene. Quando venne l’ora in cui la sentinella soleva aprire la porta per fare uscire di cella Siao Mei le cristiane presero una particola consacrata, l’avvolsero in un fazzolettino pulito e la posero nel taschino del vestito della bimba, proprio sul suo cuore. La madre della bimba prese tra le braccia la sua creatura, l’alzò al livello del suo viso e le domandò: “Dimmi, Siao Mei, se la sentinella ti trovasse addosso l’ostia, tu cosa farai?” e la bimba calma: “La mangerò e non la darò al carceriere”.
Queste parole commossero il cuore paterno del Santo Padre Pio XII, quando gli raccontai la storia di Siao Mei, nell’udienza privata che ebbi al mio ritorno dalla Cina, e gli fecero esclamare: “Risposta dogmatica!”.
Cara Siao Mei, avevi compreso che se una mano sacrilega avesse tentato di profanare l’ostia santa, tu, benché immatura, potevi ricevere Gesù, ma non potevi dare la particola a un carceriere comunista, nemico di Dio, pagano.
Il catenaccio cigolò, la porta si aprì. Siao Mei uscì sorridente di cella, si trattenne nel primo cortile giocando da sola; si spostò nel secondo cortile. Nel terzo cortile la guardia voleva mandarla via; era una guardia dal cipiglio sdegnoso, una che aveva dato prova di fedeltà e di capacità nel saper stringere tra le catene non pochi innocenti. “Voglio vedere la mia zia Giuseppina Ly”, disse Siao Mei. “Non puoi”, rispose duramente la guardia. “Perché non posso? È mia zia”. E incominciò a gridare: “Zia Giuseppina, zia Giuseppina!”.
La sentinella la sgridò aspramente e voleva cacciare la bimba fuori del cortile, ma Siao Mei volutamente si mise a piangere a dirotto e a singhiozzare. La sentinella, temendo di essere accusata di avere picchiato la bimba, con prontezza aprì la cella di Giuseppina Ly e vi introdusse il piccolo angelo. E l’innocente Siao Mei consegnò a Giuseppina il prezioso fazzolettino… Stette silenziosa raccolta per un po’ di tempo in quella cella, poi altro pianto, e la porta nuovamente si aprì. Così, col pianto e con qualche capriccetto, Siao Mei riuscì ben quattro volte a portare la comunione alla zia fittizia.
Mentre in quel tenebroso carcere venivano emesse criminose sentenze contro gli innocenti o contro i seguaci di Cristo, mentre si rinnovavano scene di terrore e di orrore, noi vivevamo scene di pietà e di amore, scene dei primi secoli della Chiesa.
Da: “In catene per Cristo. Diari di martiri nella Cina di Mao”, a cura di Gerolamo Fazzini, prefazione di Bernardo Cervellera, Editrice Missionaria Italiana, Bologna, 2015, pp. 416, euro 20,00.
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