I lager dimenticati: l’inferno titino
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 21/14 del 20 febbraio 2014, Sant’Eleuterio
L’inferno titino
Di quanto è avvenuto nei lager nazisti è disponibile un’ampia documentazione nonché moltissime testimonianze.
Al contrario, su quanto avvenne nella Jugoslavia di Tito e nei campi di concentramento comunisti la documentazione, le testimonianze e soprattutto la possibilità di accedere agli archivi di stato ed ad altre fonti utili alla comprensione dell’accaduto, sono alquanto carenti e rendono la dimensione della carneficina, attuata dai titini, quasi impossibile da ricostruire.
Nessuna telecamera ha mai filmato i campi jugoslavi o le loro vittime, come invece è accaduto in Germania.
La mancanza di documentazione filmata, oltre ad una precisa volontà, ha fatto sì che per la nostra cultura, molto legata alle immagini, tutto ciò fosse come mai esistito.
Ciò che avvenne è stato a lungo dimenticato dalla storiografia. Un’immane tragedia, volutamente sepolta, che pesa come un macigno sulle coscienze di quanti sapevano e non intervennero e di quanti in nome della libertà e della “fratellanza” massacrarono senza pietà.
Nei campi di concentramento comunisti jugoslavi vennero deportate e persero la vita migliaia di persone, militari e civili, fascisti, antifascisti, membri della resistenza, numerosi reduci dai lager nazisti e persino molti comunisti.
Dal giugno 1948, infatti, dopo l’espulsione della Jugoslavia dal cosmo sovietico in cui gravitavano i paesi legati al “Patto di Varsavia”, anche i cominformisti, ovvero quei comunisti fedeli all’ortodossia leninista stalinista legata al Cominform, che aveva condannato Tito, finirono nei campi di concentramento.
Fu un’immensa tragedia, all’interno della quale si svolse anche una dura lotta fratricida, fra comunisti.
I campi di concentramento iugoslavi
Fra i campi di concentramento jugoslavi ricordiamo Borovnica, Aidussina, Skofia Loka, Maribor, Goli Otok (Isola Calva) e Sveti Grgur (Isola di San Gregorio), In questi luoghi molti morirono di torture o si suicidarono, altri vennero semplicemente lasciati morire di fame o di sfinimento.
La bestialità dei campi di concentramento comunisti richiama alla memoria quella dei lager nazisti. Ma, come già rilevava Vittorio Strada (33),
Il problema, (…), non è soltanto quello di appurare quale dei totalitarismi, quello “rosso” e quello “nero” (o “bruno”) abbia commesso più crimini, e neppure quello di mettere assurdamente questi inediti crimini politici e ideologici di sterminio in parallelo coi pur orrendi crimini di guerra “tradizionali”, bensì quello di confrontare i due tipi di sterminio, quello “rosso” e quello “bruno”, individuandone le indubbie peculiarità e, insieme, ciò che li accomuna. E’ questo il tipo di problema che quasi mezzo secolo fa, si pose Julij Margolin, un ebreo sionista che tornato nel 1939 per un breve viaggio da Israele nella sua città natale in Polonia allora occupata dalle truppe sovietiche, fu arrestato come “elemento socialmente pericoloso” e condannato a sei anni di Lager nella “patria del socialismo”. Filosofo e scrittore, autore di una delle prime testimonianze sul Gulag, Margolin nel 1950 osò formulare una domanda che ancor oggi suona “reazionaria”, se non sacrilega, agli eredi di Lenin e Stalin: “E’ possibile confrontare i Lager hitleriani con quelli sovietici?”.
La risposta che Margolin diede nel suo saggio fu positiva: essi si possono comparare perché fra di loro ci sono molte affinità. C’è somiglianza nei fini.
Entrambi hanno lo stesso carattere aggressivo, rapace e disumano. Entrambi si servono ugualmente del sistema dei Lager per schiacciare la resistenza politica dei loro avversari. (…) L’hitlerismo ha lanciato un’aperta sfida alla famiglia dei popoli europei, a un retaggio secolare, a una tradizione di libertà e umanismo. Il suo regime banditesco esso non l’ha nascosto e non ha ingannato nessuno, costituendo un pericolo evidente e indubbio. Diverso è il caso del sistema comunista sovietico, che è stato un pericolo invisibile e furtivo, ignoto alla società europea, anche se i microbi di questa terribile malattia sono già penetrati all’interno della sua cultura. Salvarsi dall’ hitlerismo, sia pure a prezzo di una lunga guerra, è stato più facile che salvarsi dall’altro “sistema di Lager” che si cela sotto la maschera di una fraseologia democratica, di parole d’ordine socialiste e di un grande vessillo su cui è scritto “pace” e il cui spirito è tanto più pericoloso quanto più è sincero. (34)
Goli Otok
L’isola Calva o Goli Otok: due modi diversi per chiamare quello stesso luogo, che dal 1949 al 1956 il regime di Tito, trasformò in un inferno, in un luogo di tortura e di morte.(35)
Goli Otok è un grande sasso in mezzo al mare, arido, deserto, riarso dal sole d’estate e battuto dalla bora gelida d’inverno. Uno spuntone di roccia, alto fino a 230 metri, posto in mezzo al Canale della Morlacca, tra l’isola di Arbe (Rab) e la costa dalmata. E’ qui che Josip Broz Tito fece deportare, dal 1949 al 1956, oltre 30.000 prigionieri politici, dei quali circa 4.000 morirono a causa dei disumani trattamenti subiti. Chi ne è uscito, è rimasto profondamente colpito nel fisico e nello spirito, spogliato di ogni volontà di ribellione o di rivendicazione. (36)
Delle ben diciassettemila persone rinchiuse in questo luogo (tra cui anche centinaia di monfalconesi), molti morirono dopo aver subito indicibili torture o si tolsero la vita.
Meglio un mese a Dachau che un’ora a Goli, dichiarò l’italiano Mario Bontempo, che era stato in tutti e due i lager. (37)
Particolari su questo inferno titino, riportati da Diego Zandel (38), fanno riferimento alla crudele contabilità dei deportati all’Isola Calva: dal 1949 al 1956 sarebbero stati oltre 30.000 i prigionieri politici internati, dei quali circa 4.000 morirono a causa dei disumani trattamenti subiti.
Chi sbarca a Goli Otok riceve un terribile benvenuto: una doppia fila di detenuti urlanti slogans titini, in mezzo alla quale il nuovo internato passava ricevendo bastonate, calci e sputi. Chi, già detenuto, bastonava, sapeva che se si fosse dimostrato poco crudele o solo indeciso, sarebbe stato a sua volta bastonato dagli altri. (39)
Nei campi di detenzione jugoslavi la parola chiave è ravvedimento. Il ravveduto è colui che senza esitazioni o ripensamenti comprende il suo errore e aderisce entusiasta alla linea politica del Partito Comunista jugoslavo. Per sancire l’irreversibilità del proprio ravvedimento deve trasformarsi a sua volta in aguzzino.
È lui che più di ogni altro si impegna a procurare atroci sofferenze ai cominformisti non ancora ravveduti.
E’ semplicemente impossibile descrivere la vita a Goli, in quell’atmosfera di continue urla di dolore, di incessanti bastonate, di slogan perennemente gridati, inni idioti cantati in coro, senza quasi posa, sotto tortura. No, non è assolutamente possibile descrivere una situazione nella quale alcune migliaia di persone, disperate, si bastonano e si uccidono a vicenda. Nessun uomo può raccontare queste cose senza provare orrore e nessuno può esprimere questo orrore (40).
A tale terribile scenario si aggiungono anche le testimonianze dello scrittore e accademico Dragoslav Mihailovic e di un prigioniero del lager, Stipe Govic, secondo i quali il maresciallo Tito aveva predisposto dei piani di sterminio dei prigionieri nella malaugurata ipotesi che i sovietici avessero pensato di intervenire per “punire” i compagni jugoslavi. Di fronte ad un’eventuale avanzata sovietica, dunque, tutti gli impianti dell’isola maledetta sarebbero dovuti saltare in aria, facendo così sparire in una notte tutti i documenti e i prigionieri rimasti, in un quadro di cinica e brutale “soluzione finale”.
Ma non è tutto: nel caso in cui il regime titino si fosse trovato di fronte all’estremo pericolo, ogni cosa era stata studiata (o addirittura predisposta?) affinché gli ex deportati superstiti fossero sterminati in una notte sola. (41)
Borovnica
In un’autobiografia, Norberto Biso racconta, parlando dei suoi tre mesi di permanenza nel campo di Borovnica.(42)
Quando entrammo nel campo fummo suddivisi in gruppi di circa trecento persone e avviati verso le baracche. Queste erano leggermente sollevate dal suolo, avevano forma rettangolare ed erano abbastanza vaste da contenerci tutti. Non c’era niente all’interno, non un tavolo e neppure un giaciglio. E così ci rassegnammo a dormire sul pavimento di legno (…) per i nostri bisogni usavamo delle fosse, larghe e profonde circa un metro e lunghe tre, dotate di parapetto e tientibene. Nonostante questi accorgimenti, quando la dissenteria cominciò a infierire, non furono in pochi a cadere negli escrementi e a trovarvi una orribile fine. Quando questo accadeva si tappava la fossa con dentro il cadavere e se ne scavava un’altra un pò più in là.
(…) La tortura più orrenda l’ho vista infliggere a un prigioniero che non era dei nostri (…) Il ragazzo fu appeso a un palo davanti a noi: indossava solo calzoni e fu a lungo bastonato sul petto con un sottile bastone che gli lacerava le carni, mentre il suo aguzzino gli intimava di gridare “Zivio Tito”. La risposta flebile ma ferma era sempre la stessa: “Heil Hitler”. (…) La tortura continuò con ripetuti lanci di una tegola che colpì quello sventurato in varie parti del corpo, facendolo sanguinare abbondantemente. Il poveretto non reagiva: emetteva solo un flebile lamento, assolutamente inadeguato al dolore che doveva provare. Lo sentii urlare solo quando il suo aguzzino gli fece un buco nella carne con un coltello, in corrispondenza del muscolo pettorale, e passò dentro questo buco una corda che prese poi a tirare. Per sua fortuna quel supplizio durò poco, perché il ragazzo svenne. Lo fecero rinvenire con una secchiata d’acqua e lo deposero dal palo. Gli slegarono i polsi e lo sospinsero a calci verso il ruscello. “Lavati”, gli dissero, facendolo cadere nell’acqua con uno spintone. Intontito e con i polsi spezzati il poveretto non poteva ubbidire. Lo colpirono allora con una serie di calci sulla testa e lo fulminarono poi con una raffica di mitra che pose fine al suo tormento (…).(43)
La vita a Borovnica, testimoniata anche dai ricordi personali di Rossi Kobau, andava al di là delle condizioni di sopportabilità umana ed era al limite della sopravvivenza.
I cosiddetti pasti vengono distribuiti ogni secondo giorno e consistono in un quarto di litro di acqua calda con bucce di patate provenienti dai pasti delle nostre guardie. (44) Siamo tutti nelle stesse condizioni: gambe scheletriche. Spigoli alle spalle in rilievo, occhi sbarrati e un peso medio che si aggira fra i 30 e 40 chili.
(…) sveglia con una sirena manuale alle 2,30 d’estate e alle 6,30 d’inverno, segue appello e formazione delle squadre di lavoro.
Lungo le marce di trasferimento molti prigionieri crollavano per lo sfinimento. Decine e decine di chilometri senza cibo. Coloro che cadevano e non riuscivano a rialzarsi venivano fucilati senza pietà.
Il lavoro era durissimo, per dodici, sedici ore al giorno:
ti sistemavano una o due fette di legno sulle spalle. Il peso varia molto tra pezzo e pezzo (…) comunque una buona media può essere due pezzi da 10 e 15 chili ciascuno, oppure uno solo da 20 o 30 chili.
La temperatura poteva variare dai 35° gradi dell’estate ai -35° dell’inverno e l’abbigliamento era sempre lo stesso:
(…) canottiera rotta, un paio di mutande di tela di quando ero bersagliere, una camicia stracciata, una giacca del Regio Esercito, due pezzi di stoffa per avvolgere i piedi, un paio di zoccoli.
I prigionieri potevano essere uccisi in qualsiasi momento, per la più piccola trasgressione o, anche, semplicemente perché così decidevano:
(…) dagli interrogatori i più escono con i denti rotti, con lividi su tutto il corpo, con gli occhi tumefatti e con il sangue che fluisce dalle narici e dalla bocca.
Il terrore e la morte a Borovnica si possono fissare in due periodi precisi. Fine maggio – metà luglio 1945 e ottobre – dicembre stesso anno. Riferendomi al primo periodo, quello in cui si conta ormai il settanta per cento dei nostri deceduti, si verificano scene feroci anche fra i prigionieri, ormai abbruttiti dalla fame e dalle sofferenze.
Il comandante del lager di Borovnica era Ciro Raner, il quale ha potuto godere fino alla sua morte di una pensione INPS.
Le torture
Dei campi di concentramento jugoslavi scrive anche Riccardo Pelliccetti (45), il quale, avvalendosi del rapporto del 5 ottobre 1945 dei Servizi Speciali del Ministero della Marina46, racconta il macabro repertorio di torture che venivano praticate nei gulag jugoslavi.
C’era lo “stroj”, un tunnel umano attraverso il quale, fra insulti e percosse bestiali, doveva passare chi giungeva nel lager; il “bojkot”, o isolamento totale, spesso accompagnato da una razione straordinaria di “stroj”, cui periodicamente erano sottoposti gli avversari del regime; l’autorepressione, che consisteva nell’affidare il compito di torturatori agli stessi detenuti, ordinando di tanto in tanto lo scambio di ruoli. (47)
C’era la tortura al palo:
La tortura al palo consisteva nell’essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un’altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore.
Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacché, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all’osso causandogli un’infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skofja Loka. Ma ormai non c’era più niente da fare, nel braccio destro già pullulavano i vermi…Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero (…). (48)
Altri dati eloquenti, numeri e situazioni precise, riportati in un articolo di Fausto Biloslavo49, fanno riferimento all’opera di denuncia portata avanti da Marco Pirina, presidente del Centro di ricerche storiche Silentes loquimur di Pordenone.
Tra le testimonianze dirette va invece ricordata quella di Guido Tassan, sottotenente della divisione alpina “Julia”, combattente in Grecia e Russia. Egli, dopo essere stato arrestato dalla polizia segreta jugoslava OZNA (Odelenje bastita naroda), venne tenuto prigioniero per due anni e due mesi. Il suo racconto delle sevizie e delle sofferenze subite non si discosta da quello, tragico, di altri ex prigionieri, ma la ricostruzione che egli fa degli avvenimenti del tempo ha una grande importanza.
I militari arrivavano negli stanzoni la notte e leggevano i nomi di chi doveva partire.
Il 6 gennaio risuonò anche il mio nominativo. Venni messo in fila nei corridoi con gli altri. C’era anche Licurgo Olivi, esponente del Cln di Gorizia. Poi mi fecero rientrare nella camerata. Gli altri furono caricati su dei camion con le mani legate dietro la schiena. Alle prigioni dell’OZNA fecero ritorno solo i loro vestiti. (50)
Un particolare ricordo del sopravvissuto, viene fuori con amara ironia a testimonianza del cinismo dei comunisti.
E pensare che quando Palmiro Togliatti nel ’46 venne a visitare il carcere dell’Ozna a Lubiana ci fecero andare tutti in cantina. Così l’esponente comunista poté dichiarare che in Jugoslavia non c’erano prigionieri italiani.
Pochi giorni dopo, in un altro articolo (51), la dichiarazione molto significativa del 22 febbraio 1946 dell’allora arcivescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, alla Commissione Confine:
Il governo jugoslavo asserisce che furono deportati soltanto fascisti e uomini che combattevano a fianco dei tedeschi. A parte il fatto che è ben noto il valore che la parola “fascista” ha assunto nell’Oriente balcanico, riportiamo a piena smentita di tale asserzione il documento 1 con un elenco di patrioti italiani deportati, i documenti 2, 3, 4 attestanti la deportazione di soldati della “Legnano” alle dipendenze dell’ottava armata britannica e il documento 5 attestante l’arresto delle Guardie di finanza che si erano distinte nella lotta contro i tedeschi e che furono fermate con un raggiro.
Ancora più importanti, forse, le parole contenute nella relazione del maggiore T.L.C. Taylor dell’esercito britannico.
Il documento, classificato “segreto”, è datato 3 agosto 1945 ed intitolato “Rapporto generale sugli arresti e sulle esecuzioni perpetrate dagli jugoslavi nel maggio – giugno 1945”. Così si apprende che a “Gorizia vennero arrestati circa quattromila italiani (…), in provincia di Trieste tra il primo maggio e il 12 giugno del 1945 furono arrestate 17 mila persone, delle quali ottomila furono successivamente rilasciate, tremila furono uccise e seimila sono ancora internate (tremila nel campo di Borovnica)”.
Anche la testimonianza riportata da Bruno Borlandi (52) di Giuseppe Moreno, un commercialista che, nel 1945, finì in un campo di concentramento di Tito è estremamente significativa.
Sempre a proposito del modo indiscriminato con il quale gli italiani venivano arrestati e deportati Moreno ricorda
I partigiani di Tito mettevano nel lager chiunque parlasse italiano; anche ex partigiani “garibaldini” che venivano dall’Italia per unirsi agli slavi; o ex prigionieri dei tedeschi provenienti dai Balcani” (…) Eravamo un reparto di militari italiani arruolati nel ’43 all’età di 18 anni, siamo stati mandati a Pola a costruire fortificazioni. Il 2 maggio fummo catturati dai partigiani slavi a Buie, mentre tentavamo con altri reparti di rientrare a Trieste. Ci portarono, facendoci marciare, a Capodistria, da qui sempre a piedi fummo portati a Borovnica, nella piana di Lubiana.
Eravamo obbligati a durissimi lavori, venivamo percossi con lunghe fruste da cavallo e nerbi di bue. (…) I morti venivano gettati in una fossa comune che serviva da latrina collettiva. Eravamo ridotti come scheletri; divorati dalla dissenteria e dal tifo. Ho visto scene spaventose provocate dalla fame: una volta fu portato un cavallo morto che doveva servire per la minestra. Alcuni prigionieri si avventarono a raccogliere il fango bagnato del sangue della bestia, altri andarono di notte a disseppellire le budella crude e gli zoccoli per mangiare. Ne morirono. Alcuni che avevano fatto lavori presso i contadini del luogo ricevettero polenta, ne mangiarono e morirono con gli intestini perforati. Ogni giorno c’erano morti. (53)
Pochissimi sono tornati e lo Stato italiano non ha mai riconosciuto ai pochi superstiti alcuna pensione di invalidità. (54)
Non ci fu riconoscimento nemmeno per il servizio militare fatto – due anni – e al rientro dovemmo ripresentarci al distretto per fare il servizio di leva.(55)
La denuncia di Moreno raccolta da Bruno Borlandi è confermata anche dal dossier de “Il Borghese”, il quale ricorda
L’INPS infatti non riconosce alcunché a coloro che furono internati nei lager titini dal 30 aprile 1945 al 18 dicembre 1954.(56)
Queste tragiche vicende trovano riscontro anche in una relazione riservatissima, fatta dall’ufficio informazioni per i prigionieri di guerra della pontificia commissione di Udine firmata da Clonfeo don Nais, alle superiori gerarchie ecclesiastiche il 25 agosto 1945
Gli italiani della Venezia Giulia rastrellati e portati in campi di concentramento in Jugoslavia, assommano a circa 30 mila.(…) Nei campi di concentramento sono stati ammucchiati in spazi ristretti, lasciati sotto il sole e le intemperie, senza un ricovero neppure per gli ammalati. Il cibo, somministrato solo a giorni di distanza, era costituito da scarsa brodaglia, solo ultimamente fu dato un pò di pane. I prigionieri sono stati costretti, per non morire di fame, a mangiare erbe e foglie.
Spogliati dei loro indumenti, si è dato il caso che in alcuni campi li si è lasciati completamente nudi per alcuni giorni.
Per lievissime infrazioni agli ordini e per capriccio e odio delle guardie dei campi sono stati sottoposti ai supplizi più duri, quali quelli del “palo” del “romboide”. Frequentissime le percosse con nerbi e staffili di ferro.
Obbligati a raggiungere i campi a piedi. Per strada percossi e dileggiati. Chi si fermava veniva ucciso. Gli ammalati venivano finiti a rivoltellate. Lavori duri e pesanti senza alcuna utilità pratica, ma solamente per barbarie. In certi campi si è fatto lavorare dalle 14 alle 16 ore al giorno.
Il 50% sono ammalati di dissenteria, tifo petecchiale, infiammazioni ai piedi, T.B.C .(57)
NOTE
33 V. Strada, I Lager rossi, peggio di Auschwitz, “Il Corriere della Sera”, 27 agosto 1996.
34 J. Margolin, E’ possibile confrontare i Lager hitleriani con quelli sovietici?, citato da V. Strada.
35 I dépliant turistici di oggi invitano ignari turisti a visitare Goli Otok, “l’isola della pace, bagnata da un mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato immerso nel silenzio, isola di assoluta libertà”, un’isola che, in chi conosce la storia, non può che destare brividi d’orrore.
36 G. Scotti, Goli Otok citato da D. Zandel, Gulag jugoslavo per soli comunisti, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 27 ottobre 2002.
37 R. Morelli, E Tito disse: inferno sia, “Il Corriere della Sera”, 14 luglio 2002.
38 D. Zandel, Gulag jugoslavo per soli comunisti, cit.
39 A. Berrini, Noi siamo la classe operaia. I duemila di Monfalcone, Mi, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 93.
40 G. Pansa, Siamo Stati così felici, Milano, Sperling & Kupfer, 1998, pp. 174-175.
41 Testimonianza dello scrittore serbo Dragoslav Mihailovic riportata da D.Fertilio, Benvenuti all’inferno, nel nome di Tito, “Il Corriere della Sera”, 1 giugno 1997 42 Borovnica venne definito dal vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, “l’inferno dei morti viventi”.
43 N. Biso, I vivi, i morti e i naviganti, riportato su “Il Giornale”, 28 agosto 1996.
44 L. Rossi Kobau, Prigioniero di Tito 1945-1946, Milano, Mursia, 2001, p. 20.
45 R. Pelliccetti, L’altro olocausto – Ecco le vittime italiane dei lager di Tito, “Il Borghese”, 10 settembre 1997.
46 “Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica (40BD2802) e all’ospedale di Skofjia Loka (11-D-2531)”, documenti entrambi denominati “della morte”. La relazione, redatta dal colonnello medico Manlio Cace sulla base di documenti, fotografie, referti dei ricoverati, dopo la liberazione venne da questi lasciata in copia al figlio Guido, che, in seguito, la consegnò alla redazione de “Il Borghese” e di “Storia illustrata”.
47 D. Fertilio, Benvenuti all’inferno nel nome di Tito.
48 Citazione riportata R. Pelliccetti, L’altro olocausto – Ecco le vittime italiane dei lager di Tito.
49 F. Biloslavo, Foibe, un’altra denuncia, “Il Giornale”, 16 novembre 1997.
50 M. Manzin, All’inferno e ritorno, “Il Piccolo”, Trieste, 9 agosto 1990.
51 M. Manzin, I nostri desaparecidos, “Il Piccolo” di Trieste, 12 agosto 1990.
52 B. Borlandi, Il nostro olocausto nei lager di Tito, l’ “Indipendente”, 11 dicembre 1993.
53 La mortalità era altissima, morivano in media 6-7 persone al giorno per dissenteria, tifo tubercolosi, sfinimento (…) (G. Oliva, Foibe Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria).
54 Al contrario, gli aguzzini dei campi di concentramento jugoslavi, oltre a non aver scontato nemmeno un giorno di prigione, percepiscono in molti casi una pensione INPS, con tanto di arretrati.
55 Un’ingiustizia, per sanare la quale, dopo più di cinquant’anni, è finalmente in corso di approvazione un provvedimento parlamentare.
56 R. Pelliccetti, L’altro olocausto – Ecco le vittime italiane dei lager di Tito.
57 E. Pascoli, Foibe: cinquant’anni di silenzio (la frontiera orientale), Gorizia, Ed Aretusa, 1993, p. 298.