I giochi di prestigio dell’alta finanza
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 26/13 dell’8 marzo 2013, San Giovanni di Dio
Stiamo vivendo in un mondo dei sogni
di Alfonso Tuor
Le politiche delle banche centrali hanno riportato un effimero ottimismo sui mercati finanziari, ma rallentano i tempi della crisi
Negli scorsi giorni si è tenuto a Davos l’annuale Simposio che vede affluire nella cittadina di montagna grigionese leader della politica e dell’economia del mondo. Si tratta di un’occasione per confrontarsi sullo stato di salute dell’economia e sulle sue prospettive. Quest’anno l’incontro è caduto in un periodo in cui sembra che i grandi problemi posti dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla successiva crisi dell’euro stiano per essere superati. E infatti il messaggio è stato quello di fiducia e di ottimismo per il futuro a conferma del grande distacco tra quello che pensano le élites economiche e politiche e la stragrande maggioranza della popolazione che teme di perdere il posto di lavoro (se non l’ha già perso) e che in ogni caso non guarda al futuro con fiducia, ma anzi con grande paura. I partecipanti al Simposio di Davos guardano al mondo con gli occhi dei tutori del processo di globalizzazione e ne valutano la bontà in base all’andamento dei mercati finanziari. Le sofferenze dei disoccupati e dei piccoli e medi imprenditori sono a loro poco conosciute. In quest’ottica plaudono alle politiche monetarie espansive delle banche centrali e, nel contempo, alle politiche di austerità condotte da numerosi governi europei. Si tratta però di un mondo dei sogni prodotto dalle principali banche centrali che stanno stampando enormi quantità di moneta sia tenendo artificialmente i tassi di interesse di poco superiori allo zero. Si tratta di un esperimento mai avvenuto in precedenza nella storia. Le esperienze precedenti, che comunque erano di dimensioni inferiori, indicano che queste politiche non hanno prodotto buoni risultati. Anzi, spesso hanno addirittura rimesso in discussione la stessa credibilità delle monete.
Finora non si sono manifestati gravi problemi. La continua stampa di moneta e i bassi tassi di interesse hanno al contrario permesso di diffondere la convinzione che i problemi del sistema bancario e più in generale di quello finanziario sono stati superati e hanno anche riportato l’ottimismo sui mercati. Questa “repressione finanziaria” attuata dalle banche centrali è infatti riuscita a ridurre l’avversione al rischio, facendo confluire capitali anche verso gli investimenti a maggiore rischio, e spingendo al rialzo i listini azionari, che in molti casi non sono distanti dai massimi toccati nel 2007, ossia prima della grande crisi finanziaria. Anche se è vero che l’andamento delle borse non è spesso correlato con l’andamento dell’economia, è pure indiscutibile che prima o poi i dati (e i problemi) dell’economia reale tendono a riportare alla realtà i mercati azionari. Tutto sembra essere ripreso a funzionare come prima. Gli strumenti della nuova ingegneria finanziaria stanno vivendo un nuovo periodo di splendore; sono riprese anche le cartolarizzazioni (ossia l’impacchettamento di crediti di varia natura in titoli che poi vengono venduti sul mercato); sono stati spinti al ribasso anche i rendimenti delle obbligazioni a maggiore rischio e così via.
Ma oltre a questo velo di ottimismo che sprigiona dai mercati finanziari cosa stanno producendo queste politiche monetarie ultraespansive? In primo luogo, queste scelte non sono neutrali: favoriscono i soggetti economici indebitati e la speculazione finanziaria, che approfitta dei tassi bassi, a scapito dei piccoli risparmiatori e delle casse pensioni. Quindi provocano un significativo trasferimento di ricchezza dai piccoli risparmiatori ai soggetti indebitati e al settore finanziario. In secondo luogo, favoriscono la formazione di nuove bolle speculative. In terzo luogo, almeno finora non stanno creando le premesse per una crescita sana e duratura. La conferma viene dalle stesse banche centrali. Se la Federal Reserve statunitense fosse soddisfatta dei risultati conseguiti, non avrebbe deciso di aumentare a 85 miliardi di dollari il mese la stampa di nuova moneta e di far dipendere la fine di questa politica dalla riduzione al 6,5% del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti. In quarto luogo, rischiano di innescare un processo perverso di svalutazioni competitive. È la strada che sembra aver imboccato il Giappone che si propone attraverso una politica monetaria ancora più accomodante di favorire il deprezzamento dello yen. Questo fenomeno è già cominciato: infatti la valuta giapponese ha perso circa il 10% nei confronti del dollaro. Questa mossa di Tokyo è stata già criticata dai Paesi maggiormente penalizzati dalla svalutazione dello yen, come Corea del Sud, Cina e Paesi europei. In Eurolandia queste politiche monetarie e soprattutto la promessa di Mario Draghi che la Bce è disposta a tutto per salvare l’euro hanno riportato la calma sui mercati, ma non hanno affatto rallentato la spirale recessiva in cui sono caduti molti Paesi mediterranei.
Queste politiche monetarie rischiano dunque di portarci a guerre valutarie, che accelererebbero il processo di deglobalizzazione già innescato dalla crisi finanziaria del 2008. Non riescono invece a rilanciare una crescita solida e duratura, poiché il sistema bancario non funziona come meccanismo di trasmissione degli impulsi di politica monetaria e poiché contribuiscono ad aumentare quelle disparità di reddito che sono la causa prima della crisi. Dunque, come è stato scritto, produrranno unicamente il risultato di rallentare i tempi della crisi.