Gli altri lager: i campi titini
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 7/19 del 24 gennaio 2019, San Timoteo
Gli altri lager: i campi titini
Una pagina volutamente dimenticata dalla storiografia ufficiale è quella relativa ai feroci regimi comunisti che si insediarono in diverse nazioni cattoliche europee. Ricordiamo alcune di queste pagine censurate per dare memoria alle vittime del comunismo, tra cui numerosi membri del clero cattolico.
I campi di sterminio di Tito
Bastava un soffio, un colpo di vento, che veniva da Fiume, ormai diventata stabilmente Rijeka: tanti saluti, uno era disfatto, gettato in aria come uno straccio, o una foglia di granoturco. Si viveva giorno per giorno. Ogni cosa poteva accadere.” (Carlo Sgorlon, La Foiba grande)
Le Foibe sono una triste realtà che è purtroppo parte della storia del nostro dopoguerra e del lungo doloroso calvario delle popolazioni giuliano – dalmate. Ma non furono l’unico strumento della repressione e della pulizia etnica praticata dalla IV Armata jugoslava, dall’OZNA (la polizia politica titoista) e dai collaborazionisti italiani di fede comunista che operarono in Dalmazia e Venezia Giulia nell’immediato dopoguerra.
Nei territori occupati nelle zone del confine orientale d’Italia, i partigiani di Tito si macchiarono di crimini d’inaudita ferocia, non soltanto contro i fascisti, ma anche contro italiani che avevano badato a “non compromettersi con il fascismo” e talvolta persino contro italiani antifascisti o addirittura comunisti, ma non in linea con la prassi politica di Tito.
Il lungo elenco degli orrori sembra essere infinito e la sua lettura non può non provocare un forte senso di disagio, soprattutto in quanti nulla conoscono di quel tormentato periodo a causa di una storiografia ufficiale per troppo tempo volutamente “distratta” e faziosa.
Basta riferire soltanto alcuni episodi, tutti ampiamente documentati e tali da fornire un quadro sufficientemente orientativo dei tragici fatti che caratterizzarono i giorni dell’occupazione jugoslava.
La crudezza di alcune descrizioni deve essere giustificata: in effetti, la storia dell’immediato dopoguerra in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia è costituita anche da orrori apparentemente incomprensibili, ma in realtà attentamente pianificati in ossequio alle logiche perverse della pulizia etnica e della snazionalizzazione a tappe forzate dei territori occupati.
Renderne testimonianza vuol dire rispettare la memoria delle migliaia di Caduti e di “scomparsi” per troppo tempo volutamente e pervicacemente ignorati.
Un Maresciallo della MDT (Milizia di Difesa Territoriale) fu sepolto vivo ad Aidussina nel giugno 1945 e lasciato morire lentamente con la sola testa fuori dalla terra. Una donna, arrestata nel maggio del 1945 perché suo fratello era stato iscritto al Partito Fascista Repubblicano, fu violentata da 18 partigiani slavi che le spezzarono le braccia perché non potesse difendersi; successivamente fu infoibata.
Vennero deportati e fatti scomparire tutti i feriti dell’Ospedale “Seminario Minore” di Gorizia (una settantina su tre autocarri). Altrettanto avvenne nell’Ospedale Militare di Trieste: una volta deportati, scomparvero. E lo stesso accadde nell’Ospedale Marino di Rovigno e nell’Ospedale Civile di Pola. Una mattanza!
Testimoni oculari riferirono che diversi italiani, feriti gravi, furono ammassati sull’impiantito di pietra del cosiddetto “ospedale” di Skofia Loka e picchiati selvaggiamente. Questo “ospedale” era stato ricavato in un antico, fatiscente castello. Privo di qualsiasi vera attrezzatura ospedaliera, era in realtà soltanto una sorta di angosciosa sala d’attesa della morte.
La macabra vicenda degli “infoibamenti“ fu tragicamente integrata da uno spaventoso, allucinante sistema di campi di sterminio, in cui si moriva di fame, di freddo, di dissenteria, di tifo, ma anche in seguito a fucilazioni sommarie, ad atroci torture o ad autentici omicidi, compiuti sotto gli occhi degli internati per distruggere le loro condizioni morali e la loro resistenza fisica e psicologica.
I crimini della polizia e dei militari “titoisti” si ripeterono a partire dal maggio-giugno 1945 e si protrassero per anni nei territori occupati. Menti lucide nel pianificare lo sterminio degli “italiani”, arrivarono a studiare modalità di “esecuzioni” elaborate per infliggere il massimo della sofferenza ed essere d’esempio ai superstiti. Come accadde ai duecento prigionieri costretti a scendere nella miniera di Pozzo Littorio (Arsia) e lasciati morire d’inedia, di sete, di disperazione, in una galleria da cui nessuno tornò.
O come fu fatto per gli oltre duecento prigionieri, militari, civili, donne, giovani, vecchi, soldati italiani e tedeschi, strettamente ammanettati con filo di ferro ed ammassati nella fatiscente nave cisterna “Lina Campanella” che il 21 maggio 1945 fu fatta saltare su uno sbarramento di mine magnetiche. Prima, i partigiani di guardia e gli altri slavi dell’equipaggio avevano abbandonato la nave, lasciando che la vecchia carretta si inabissasse. Alcuni prigionieri fecero in tempo a sciogliere i legacci di filo di ferro e si lanciarono in mare. In parte, coloro che riuscirono a raggiungere la riva furono sommariamente uccisi, mentre altri furono avviati ai campi di prigionia.
Fu proprio in questi campi che si concluse la peggiore, straziante, lenta agonia di italiani della Dalmazia, dell’Istria, della Venezia Giulia e di altre regioni d’Italia (in specie pubblici funzionari e militari), caduti nelle mani dei titini: si trattava di veri e propri campi di sterminio, sparsi in tutto il territorio della ex Jugoslavia. Le “eliminazioni” cominciavano già dallo smistamento e proliferavano durante le traduzioni da un campo all’altro che spesso avvenivano solo per mostrare alle popolazioni (secondo la logica della propaganda di regime) il valore espresso dai partigiani dell’esercito jugoslavo di “liberazione” nel fare un numero così elevato di prigionieri.
Le “traduzioni” avvenivano in fatiscenti autocarri, ma più spesso a piedi, con i detenuti costretti a camminare scalzi, privati dei vestiti, digiuni, strettamente legati ai polsi ed alle braccia con il filo di ferro; i più deboli cadevano esausti e venivano finiti col cranio spaccato dal calcio di un fucile o con il classico colpo alla nuca. Chi si fermava per soccorrere un camerata od un amico caduto, veniva ucciso sul posto.
Racconta Ezio Sambo, un testimone di Chioggia, che un anziano di Cormons faticava a camminare ed era per questo sostenuto dalla moglie che aveva voluto seguirlo a tutti i costi. Ad un certo punto l’uomo si accasciò al suolo sfinito: fu ucciso sotto gli occhi della donna.
A Trieste nel maggio-giugno 1945 le bande titine instaurarono un centro di tortura dove gli italiani detenuti venivano sottoposti alle più efferate sevizie: erano bastonati selvaggiamente, costretti a bastonarsi a vicenda, a mettere la testa nel bugliolo degli escrementi, fino ad essere ridotti a stracci senza vita; quindi scomparivano “in foiba”.
I sopravvissuti non infoibati vennero rinchiusi, tra gli altri, nel campo di smistamento della “Risiera di San Sabba” (già utilizzato come tale durante l’occupazione tedesca), anticamera di un complesso e sconvolgente sistema di sterminio, dove si moriva letteralmente di fame; i prigionieri, spesso senza cibo, erano costretti a raccogliere l’erba che trovavano, e, quando potevano, la facevano bollire. I residui della mensa dei partigiani slavi venivano avvelenati e poi dati in pasto ai malcapitati detenuti, con le conseguenze che è facile immaginare.
Ad un prigioniero del famigerato lager di Borovnica furono strappati gli occhi; alla sera, venne fucilato in quanto i suoi lamenti strazianti infastidivano i torturatori. Ad un altro italiano prigioniero furono strappati lembi di carne dalle cosce e si sparse il sale sulle lacerazioni.
In queste condizioni la morte era spesso un sollievo. I morti venivano portati via su di un carretto e sepolti in fosse comuni nelle vicinanze: nessun registro, nessun appunto, nessuna notizia per le famiglie, che per anni sono state costrette a vivere nell’incertezza sulla sorte dei loro congiunti.
La Croce Rossa non esisteva. Ed i fucilati per disobbedienza, o per aver rubato una patata o una cipolla, venivano gettati nello sterco delle latrine da campo ed era consentito soltanto che fossero ricoperti di terra mentre si scavava accanto un nuovo fosso da latrina. La stessa fine faceva il corpo di chi, sfinito dagli stenti, non si reggeva in equilibrio sull’asse posto a traverso del fosso e vi cadeva dentro affogandovi, senza che ad alcuno fosse permesso di soccorrerlo. Nel campo di Borovnica morivano, in media, dai sei ai sette prigionieri al giorno, di fame, di dissenteria, di freddo, di stenti, oltre che in seguito a torture.
Ma in questi campi si doveva anche lavorare per 12 ore al giorno: fatiche estenuanti, a tagliar legna nei boschi, con accette e seghe a mano, a scavare con martelli e scalpelli a mano nelle cave, a costruire strade, ponti e ferrovie nel gelo dell’inverno balcanico, appena ricoperti da brandelli di vestiti estivi, molto spesso senza scarpe, con i piedi nella neve.
Un vero “lager” di sterminio fu la cosiddetta “ferrovia della Giovinezza”, fiancheggiata dalle fosse dei prigionieri e dei “volontari” morti di stenti e di fatica. Altri lugubri campi furono quelli di Maribor e di Prestrane, e le carceri di Lubiana.
Si trattava di un sistema concentrazionario soltanto apparentemente scoordinato, ma in realtà attentamente pianificato, fatto di campi di lavoro e di sterminio per lenta – ma non sempre lenta – consunzione, come quelli già citati di Borovnica e di Skofia Loka, un “Ospedale” lager per moribondi dove un giovane di un metro e ottanta di altezza era ridotto a pesare quaranta chili.
Nel campo “di lavoro” di Buccari, presso Fiume, si infliggevano continue e sistematiche torture; ciò accadeva anche in tanti altri lager situati, nel numero di alcune decine, in tutto il territorio della Repubblica federativa. Basti citare, tra i più noti, quelli di Bistrica, Delnice, Grobnico, Karlovac, Lepoglava, Mitrovica, Spalato. Non meno infausto era il destino dei prigionieri nelle miniere di carbone, dove sofferenze e sevizie erano analoghe.
Il terrore che regnava in questi campi di sterminio serviva come deterrente anche per le etnie che da sempre mordevano il freno all’interno della stessa Jugoslavia. Perciò, fin dall’inizio, fu data via libera alla massima ferocia.
La strategia del terrore doveva tenere in piedi il regime comunista; era il collante del titoismo nato dalla guerra di “liberazione” e nello stesso tempo contribuiva a “snazionalizzare” velocemente i territori abitati da popolazioni di lingua italiana. La ferocia, in sostanza, portava risultati concreti al regime comunista che necessitava di un rapido consolidamento.
Non pochi prigionieri italiani che riuscirono a sopravvivere a stenti e nefandezze furono trattenuti fino al 1954 ed in qualche caso anche oltre.
Come era stato cinicamente preordinato, fin dai primi tragici episodi di efferate persecuzioni il terrore si era diffuso in maniera generalizzata in Dalmazia, a Fiume, in Istria. E fu l’esodo forzato che tutti conosciamo: 350 mila italiani lasciarono la terra natale, le proprietà, il lavoro, le testimonianze della loro storia, i monumenti, le opere d’arte, e le spoglie dei propri cari in cimiteri che sarebbero rimasti disperatamente senza croci.
Confessò Milovan Gilas: “Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria. Era nostro compito indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto.”
Comunicazione di Michele Chiodi. Il presente articolo è tratto dagli “Atti del Convegno di studi storici” tenutosi il 28 gennaio 2001 sul tema “Foibe: la storia in cammino verso la verità”. Si ringrazia l’Istituto di Studi Storici Economici e Sociali (ISSES) di Napoli per avere consentito il reprint dell’intervento, con alcuni adeguamenti formali.
Fonte: http://www.tuttostoria.net/storia-contemporanea.aspx?code=695