Gente al Getsemani
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 31/24 del 28 marzo 2024, San Giovedì Santo
Gente al Getsemani
I ricordi di un pellegrino al Getsemani pubblicato dall’Almanacco di Terra Santa del 1943.
Penso che capitandogli sotto il giorno del Giudizio, il Signore mi domanderà conto soprattutto del tempo che ho passato a Gerusalemme, la sua città. Bisogna dunque ch’io metta un po’ d’ordine nei miei confusi ricordi di pellegrino.
Il mio primo incontro con Gerusalemme, fu al Getsemani. Eravamo giunti in città (una comitiva di pochi, quasi una famiglia; ma ne dirò più tardi) che la sera vi era già scesa : sera limpida, tutt’argento di luna piena, come può facilmente verificare chiunque si informi com’era la sera del 25 marzo 1937. Sera del Giovedì Santo. Deposto il bagaglio a Casanova, quei buoni Padri ci dissero che proprio in quel momento la processione partiva dal Cenacolo e s’avviava al Getsemani, ripetendo la strada fatta da Gesù la notte della Passione. Cenacolo, Getsemani… ; parole che facevan tremare il cuore; e noi s’era lì a pochi passi dall’uno e dall’altro. Non valeva la pena di saltare la cena per partecipare al rito? Tutta la Gerusalemme cattolica (si sa che è la minima parte ma quella sera tutta Gerusalemme pareva cattolica) era in movimento : un correre di monache e di frati, di cristiani venuti dalla Porta di Giaffa e dalla Porta di Damasco, di beduini venuti dalle tende mobili, di pellegrini giunti da ogni Nazione per far Pasqua a Gerusalemme. Perchè anche questo è da dire : che Gerusalemme non è tanto dei suoi abitanti quanto piuttosto dei pellegrini di tutto il mondo.
La processione scendeva dall’altura del Sion per il caratteristico sentiero che arriva ai fianchi del Moriah, costeggia le mura del Tempio ora Moschea di Omar, degrada nella valle di Gíosafat rabbrividente di sepolcri imbiancati, passa il Cedron e la sua poca onda e raggiunge la strada che sale fino ad un fianco dell’Oliveto dov’era il tragico Orto, il Getsemani. Che è, se Dio vuole, tutto in mano ai Cattolici. Per il Getsemani le Crociate non furono combattute invano.
Il cuore — perchè non dirlo? il cuore domandava e s’aspettava una funzione all’aperto, nell’Orto, nell’Orto vero, nudo sotto la notte nuda, alla presenza dei santi ulivi che assistettero all’agonia di Gesù. E, per la ricostruzione della scena evangelica, nulla di più caro di questo luogo naturale che guarda giù nella valle del Giudizio, al di là della quale s’inclina la città deicida. I versetti di Luca o di Matteo, letti lì all’aperto, sono più immediati e commossi, e plastici. Ecco il sentiero per il quale il Maestro ci è arrivato ragionando con gli Apostoli di umanissime cose : « Non c’è maggior segno di amicizia che quello di dar la propria vita per gli amici ». E qui è il posto dov’egli ha pregato; e l’altro è il posto dove fu baciato da Giuda, e dove fu catturato. La narrazione di Matteo piena di hic e di illuc — qui e là — come è mossa e attuale! e lascia intravedere il gesto della mano del Maestro che indica e dice. Il cuore vorrebbe trovare un orto anche più selvatico, più orto e meno giardino, come doveva essere allora quand’era un frantoio d’ulive; uno di quegli antichi frantoi, specialmente lodati dal Levitico. Ma cosa non vorrebbe il cuore? E c’è chi si scandalizza nel vederlo ridotto a giardinetto elegante, a viali di ghiaia, ad aiole di viole. Scandalo inutile. Bisogna capire piuttosto. Capire che ornare quel santo Orto, è come ornare un altare. Come potrebbero dunque quei cari Padri liberarsi da così pia tentazione che par diventi un religioso dovere ? Certo non si può negare che quella ghiaietta fine e quelle rose e fiori alterano un poco l’idea severa e un po’ sinistra che del Getsemani ci eravamo fatta, e paion morbidezze per gente coi piedi dolci, non per chi si prepara a fare la via dolorosa.
Ma lì a dare il senso dell’austera antichità, sono ancora gli otto ulivi contemporanei di Gesù. (…) Ad essi dunque è affidato il ricordo di un Dio contristato : « La mia anima è triste fino alla morte ». Rovinatissimi, decrepiti, più simili a rocce aspre che ad alberi, hanno qualche cosa di vivo, di abitato. Par che dentro vi dorma ancora la luce sinistra delle torcie con cui la sbirraglia venne ad arrestarlo. Fossero anche i polloni di quelli — novelle olivarum — noi li abbiamo toccati e ci siamo fatto il segno della Croce con molta divozione e commozione. I santi ulivi ! I greci facevano condannare dall’Areopago i violatori dei sacri ulivi. Qui, a difenderli dalla pia ingordigia dei pellegrini, c’è la scomunica… E c’è la mura di cui í cari Padri francescani han recinto il giardino.
La funzione fu dunque fatta nella Basilica, di fianco all’Orto : la imponente Basilica che l’italiano Barluzzi innalzò nel 1920 sulle fondamenta di una vecchia chiesa del 300, tempio di Teodosio. A sentire Silvia nella sua « Peregrinatio » che è del 400, questa funzione del Giovedì Santo si faceva fin d’allora : « Quivi è una chiesa elegante dove nella notte dal giovedì al venerdì santo entrano il Vescovo e il popolo. Si legge il passo del Vangelo ove è narrato l’arresto di Gesù… » Il ritmo architettonico della Basilica è tutto di dolore, d’un dolore che si incurva verso una roccia che è nel centro del presbitero. Secondo l’ultime ricerche, è la roccia della Agonia, scoperta, lucente, distesa ai baci bagnati di pianto dei pellegrini. Grande reliquia dentro un grande reliquiario. E’ il punto del Getsemani che più ha bevuto il dolore di Gesù. « Hic factus est sudor eius sicut guttae sanguinis decurrentis in terram ». Qui, su questa pietra, è stata sofferta l’ora più dolorosa per tutta la povera umanità. Hic. Qui. E’ la paroletta che inquieta e sgomenta, poichè dà il senso immediato e sempre vivente del racconto evangelico. Tutti e quattro gli evangelisti sono mobilitati a narrarci i particolari della scena, ma San Matteo ne è l’Eschilo. E lì, sulla roccia sacra i Padri cantarono la Passione secondo Matteo. I versetti s’avvivavano, dolenti, piangenti… Istituita l’Eucaristia, ossia il dono senza sosta, Gesù usciva dal Cenacolo e veniva verso il suo monte. Sul chiacchierio, spiccato, del Cedron si riudiva la sua voce che parlava agli Apostoli : « La mia anima è triste fino alla morte… ». Giungeva alle radici del monte; entrava nell’Orto, s’inginocchiava a pregare, tra il sonno stupido dei suoi. Poi, il suo affanno mortale, e il sudore dí sangue, e la preghiera di liberazione, e un angelo a confortarlo. Poi, Giuda e il bacio osceno, e la cattura. Con un colpo d’ala la fantasia s’era liberata da ogni parete ed io mi trovavo all’aperto, nell’antico Orto pieno di cielo. Getsemani, luogo di Passione, luogo di Redenzione, dove l’uomo si sente impegnato come credente in una divina cospirazione. Da quella notte tremenda, il Getsemani è diventato un santuario spirituale, un paese dell’anima, il luogo di convegno di tutti gli spiriti privilegiati che sanno soffrire con Cristo. Fu detto che Gesù è in agonia fino alla fine del mondo, volendo continuare la sua passione in noi. Ma avendo chiamato l’uomo a soffrire con lui, Gesù gli ha lasciata la parte del suo dolore rassegnato, sereno. Gli ha lasciato il dolore che si scioglie nella consolazione della preghiera e che la presenza di un angelo rende quasi armonioso. L’altro, quello che è solo di Dio, Cristo se lo porterà sul Calvario.
Tratto da: Almanacco di Terra Santa per l’Anno di Grazia 1943 – Anno XXII, Tipografia dei P.P. Francescani, Gerusalemme, pag. 42 – 44.
L’articolo fu scritto da don Cesari Angelini (1886-1976). Il diario del suo primo pellegrinaggio in Terra Santa fu pubblicato a puntate sul Corriere della Sera nel gennaio-febbraio 1933. Dopo un secondo pellegrinaggio in Palestina, l’autore nel 1937 pubblicò Invito in Terrasanta, che ebbe poi nel 1959 un’edizione riveduta con un nuovo titolo, Terrasanta Quinto Evangelo.