Foibe e stragi in Slovenia
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato 11/15 del 4 febbraio 2015, Sant’Andrea Corsini
Pubblichiamo una serie di articoli sulla tragedia delle foibe, senza seguire però la via dell’odio e della vendetta praticata da alcuni nel commemorare altre tragedie. Sia di esempio l’affermazione di un soldato testimone del massacro dai suoi commilitoni da parte dei partigiani comunisti: “sono trascorsi tanti anni, non voglio processi né tanto meno vendette, voglio le salme e i resti dei nostri morti” (Nello Rossi, reduce del Battaglione Mussolini)
Foibe: dalla Slovenia la mappa dell’orrore, di Massimo Zamorani (Avvenire 7/10/2007)
I siti sono oltre duecentocinquanta; le vittime, parecchie decine di migliaia. E gli italiani non sono che una parte: accanto a loro si contano croati, partigiani monarchici, patrioti sloveni, militari tedeschi, religiosi cattolici. La mappa dell’orrore viene da Est, dalla Slovenia. La conservava Vinko Levstik, che durante la guerra ’40-’45 era un ‘domobranzo’, cioè apparteneva alla milizia slovena nazionalista ma anticomunista.
Il documento è tornato alla luce di recente e ha un significato sentimentale, perché chi l’ha offerta è deceduto poco tempo dopo e ciò vuol dire che le era stato attribuito il fine di lascito testamentario a beneficio di chi potrebbe farne tesoro. La mappa reca con meticolosa esattezza tutti i luoghi, in territorio della Repubblica slovena, dove sono stati sepolti o, comunque celati, i corpi delle vittime della primavera 1945. Non sono solamente foibe, ma anche fosse comuni, sepolture più o meno clandestine d’ogni genere.
I siti sono oltre duecentocinquanta, e le vittime? È una valutazione difficile, però con un po’ di pazienza si può formulare un ordine di grandezza e si arriva a parecchie decine di migliaia.
Verosimilmente potrebbero essere settanta od ottantamila morti ammazzati. Si scopre così che gli italiani infoibati o seppelliti frettolosamente dopo essere stati assassinati sono una minoranza. Un dato verosimile sembra circa settemila ed è una cifra che sgomenta, ma nella zona di Kocevje, per esempio, dove la mappa indica sette tra fosse comuni e corpi interrati in una trincea anticarro, sono stati seppelliti tremila domobranzi, su un totale di dodicimila massacrati.
Sono spariti sottoterra diciottomila croati, ustascia e no; seimila cetnici (partigiani serbi monarchici delle formazioni del generale Draga Mihailovic) e poi belagardisti (Guardia bianca slovena), militari tedeschi, religiosi (in una nota si elencano per categoria: seminaristi, parroci, cappellani), civili d’ogni genere, sesso ed età: contadini, operai, commercianti, insegnanti, professionisti. Sono stati ripuliti interi villaggi della valle dell’Isonzo, perché, come aveva rivelato Teodoro Francesconi preciso e documentatissimo storico degli eventi giuliani di recente scomparso, gli ordini erano di eliminare tutti gli italiani che vivevano sulla sponda sinistra del fiume.
A distanza di oltre sessant’anni c’è ancora chi cerca. A parte le inchieste ufficiali, espletate dalla commissione mista italo-slovena, diretta, da parte italiana, dal colonnello Armando Di Giugno di Onorcaduti, direttore dei sacrari militari del Friuli-Venezia Giulia e da parte slovena da Zdravko Likar, ci sono altri, impegnati in ostinate ricerche per iniziativa personale.
Giovanni Guarini, goriziano, ha identificato e recuperato la salma del padre, allora carabiniere, precipitato insieme con gli altri militari di Gorizia, nella foiba di Tarnova. È questa una voragine che si apre in una radura nel cuore della foresta con una bocca di cinque o sei metri di diametro e si sprofonda in un’oscurità senza fine; è visione da brivido. Alcuni anni or sono un gruppo di speleologi istriani vi si è calato, hanno raggiunto una specie di pianerottolo a trenta metri di profondità e, riemersi, hanno riferito di aver valutato una giacenza di cinque o sei metri cubi di ossa.
I bersaglieri del battaglione ‘B. Mussolini’ della Repubblica sociale, che il 30 aprile 1945 aveva deposto le armi dopo una trattativa con le formazioni di Tito, secondo i patti avrebbero dovuto essere posti in libertà; furono invece trattenuti e costretti a una lunga marcia della sofferenza. Il battaglione, che in difesa della frontiera giuliana aveva perduto in combattimento 166 uomini in 19 mesi di guerra su un fronte di 27 chilometri, al momento della fine delle ostilità aveva una forza di 28 ufficiali e 572 bersaglieri. Nei soli primi otto giorni sono stati eliminati 91 bersaglieri, i cui corpi venivano più o meno sommariamente interrati in alcune delle località contrassegnate nella mappa dell’orrore.
Capolinea della sanguinosa marcia: il campo di concentramento di Borovnica, località a venti chilometri da Lubiana, definita «l’inferno dei morti viventi» dal vescovo di Trieste Santin, dove hanno lasciato la vita 77 bersaglieri. Lionello Rossi, padre dell’attore Paolo, è uno dei rari sopravvissuti. Ha pubblicato un diario (Prigioniero di Tito, edito da Mursia) riuscendo a narrare gli avvenimenti da lui vissuti senza esprimere opinioni o considerazioni, senza usare aggettivi: solo date, nomi, fatti. Ma ne scaturisce una forza drammatica emozionante. Ne sono rimasti colpiti anche quelli che erano ‘dall’altra parte’, come il partigiano Marjam Grosar. Secondo la storica slovena Nevenka Troha, Borovnica è stato «uno dei più crudeli e disorganizzati campi di prigionia in Jugoslavia». Non pochi sloveni si sono impegnati nella ricerca delle sepolture e nell’identificazione delle vittime.
Alcuni di questi sono giovani, nati dopo gli orrori del 1943-’45. Anton Zitnik, per esempio, è nato nel 1940. Poi ci sono Franc Perme, Franc Nucic, Zdenko Zavadlav, Janez Crnej, che hanno partecipato alla compilazione del grosso volume Slovenja 1948-1952. I sepolcri tenuti nascosti e le loro vittime edito dall’Associazione per la sistemazione delle sepolture nascoste di Lubiana. L’edizione italiana è curata dalla Lega nazionale d’Istria, Fiume, Dalmazia di Milano.
Tra i dispersi di cui si è perduta ogni traccia vi sono anche gli ottanta bersaglieri ‘incavernati’, termine impiegato per indicare la loro probabile fine. Nel fianco del Pan di Zucchero, il colle che sovrasta Tolmino, c’era una galleria nella quale, durante la Prima guerra mondiale, si celava, dopo i tiri, un cannone austriaco di grosso calibro montato su affusto ferroviario. Si ritiene che gli ottanta bersaglieri siano stati portati all’interno della galleria, dopo di che ne è stata fatta saltare con l’esplosivo l’imboccatura, in modo da seppellirli vivi. A causa della vegetazione che ha proliferato disordinatamente, fino a questo momento non è stato possibile neppure identificare il punto ove era l’accesso al tunnel.
Secondo un’altra ipotesi, gli ottanta sarebbero stati invece seppelliti sulla sponda sinistra dell’Isonzo, subito a monte della confluenza del fiume Tolminca. Avrebbero poi coperto l’area con uno spesso strato di cemento, sul quale è stato costruito il Club Paradise. Sono mai stati identificati i responsabili dello sterminio in Venezia Giulia e Istria? Sono mai stati celebrati processi?
Alla prima domanda si può rispondere con un sì, non così alla seconda. Per quanto si riferisce sia alla giustizia slovena, sia a quella italiana, non risulta sia mai stato processato qualcuno. Ogni tanto comparivano sui giornali italiani scritti promettenti: «I giudici sloveni decidono di collaborare», «La procura militare di Padova sta indagando», ma gli sviluppi mancano. La cronaca si è occupata del processo per diffamazione a mezzo stampa promosso dallo sloveno Franc Pregelij, detto ‘Boro’, contro il giornalista Giangavino Sulas del settimanale Oggi perché lo aveva definito ‘boia’ e non ‘presunto boia’ come i più riguardosi confratelli. Aveva chiesto un indennizzo di trecento milioni di euro, ma ha perduto la causa. Il Pm Giuseppe Pititto aveva rinviato a giudizio tre indiziati per strage: Ivan Motika, Oskar Piskulic e Margitra Avijanika, ma in data il 14 noovembre 1997 il Gip Alberto Macchia li ha prosciolti «per difetto di giurisdizione», in quanto i luoghi dell’eccidio oggi non sono più in territorio italiano.
Conferma al fatto risaputo che, soprattutto in Italia, la legge è una cosa, la giustizia un’altra.
Per Nello Rossi il problema è uno solo: «Sono trascorsi tanti anni, non voglio processi né tanto meno vendette, voglio le salme e se lo scopo consiste nel trovare i resti dei nostri morti noi bersaglieri non conosciamo altre strade al di fuori di quella del dialogo, dell’incontro, dell’intesa, che è poi quella che stiamo percorrendo».