2021 Comunicati  12 / 02 / 2021

Don Paolo Albera, il secondo successore di Don Bosco

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 15/21 del 12 febbraio 2021, Sette Fondatori

Don Paolo Albera, il secondo successore di Don Bosco

Don Paolo Albera (None, 6 giugno 1845 – Torino, 29 ottobre 1921) fu il secondo successore di san Giovanni Bosco alla guida della Società Salesiana. Lo ricordiamo nel centenario della morte. E’ il ragazzino che in una celebre foto si confessa da Don Bosco appoggiando la sua fronte a quella del santo.

Don Albera. Visse con la mente e il cuore di don Bosco e di don Rua

Don Bosco doveva sceglierne uno che prendesse posto sull’inginocchiatoio in atto di fare l’accusa. Si guardò intorno e sorridendo chiamò: «Paolino, vieni qui. Mettiti in ginocchio ed appoggia la tua fronte alla mia, così non ci muoveremo!».

 Sotto l’apparenza mite e riservata di don Paolo Albera si celavano un animo adamantino e una volontà d’acciaio. Tutti sentivano un affetto sconfinato per don Bosco ed erano preoccupati per la sua salute. Inoltre la sua vena dinamica pareva inesauribile. Notte e giorno non si fermava mai e la sua forte fibra sembrava indebolita. Ma mancava una cosa! Una cosa che la tecnica moderna permetteva anche se era ancora largamente sperimentale: una fotografia. Dovevano assolutamente avere un ritratto “vero” del loro don Bosco. La vera difficoltà fu convincere don Bosco, ma dopo mille insistenze ci riuscirono. Il grande giorno fu il 21 marzo 1861. In quel tempo, i soggetti da ritrarre dovevano restare immobili per un tempo lunghissimo. Don Bosco chiese di posare fra un gruppo di chierici e semplici alunni, lui in atto di confessare, questi inginocchiati devotamente. Don Bosco doveva sceglierne uno che prendesse posto sull’inginocchiatoio in atto di fare l’accusa. Si guardò intorno e sorridendo chiamò: «Paolino, vieni qui. Mettiti in ginocchio ed appoggia la tua fronte alla mia, così non ci muoveremo!» Paolino era Paolo Albera e rimase a lungo con la sua testa appoggiata a quella di don Bosco. Il risultato fu qualcosa di magico. Don Bosco qualcosa intuiva e volle questo ritratto, nella versione ritoccata a matita, appeso nella sua anticamera. Quel ragazzino gentile con la testa appoggiata alla sua, Paolino Albera, sarà il suo secondo successore. Don Bosco lo aveva incontrato nell’autunno del 1858 a None, un paesino della pianura torinese, perché il parroco, suo buon amico, gli aveva detto di aver un piccolo parrocchiano di tredici anni che desiderava diventare prete. Don Bosco lo volle vedere e si trovò davanti un ragazzetto delicato, dall’aria mite e serena e lo sguardo vivo e curioso.

Paolo Albera all’Oratorio

Nel 1858, l’Oratorio era ancor pieno del profumo di santità che vi aveva diffuso il quindicenne Domenico Savio, volato in paradiso l’anno prima. C’era un altro ragazzo che stava conquistando la stessa fama: Michele Magone. Michele era tutt’argento vivo; e l’affetto di don Bosco ne aveva fatto un angelo. Paolino Albera e Michele Magone finirono vicini di letto in camerata e divennero amici. Un’amicizia gioiosa e leale che durò poco. Michele morì a quattordici anni e Paolo Albera poté ascoltare commosso le parole che scambiò con don Bosco quando cadde malato: «Se il Signore ti offrisse la scelta o di guarire o di andare in paradiso, che sceglieresti?» chiese don Bosco. Magone rispose: «Chi sarebbe tanto matto da non scegliere il paradiso?» Vedendolo gravissimo, don Bosco gli disse: «Prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione». Magone rispose: «Dica pure, io farò quanto potrò per obbedirla». E don Bosco: «Quando sarai in paradiso e avrai veduto la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che nessuno di quelli che sono, o che la Divina Provvidenza manderà in questa casa, abbia a perdersi». I fatti dimostreranno che Michele Magone ha fatto la sua “commissione”. Con questo ricordo nel cuore e gli occhi sempre ben fissi su don Bosco, Paolo Albera, timido e riservato, ma più che mai risoluto divenne uno dei migliori. La casa di don Bosco era la sua casa. Più tardi descrisse così quel periodo benedetto: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d’una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuoi parlare senza pronunziar le parole; le parole stesse cadenzate in un modo piuttosto che in un altro; il portamento della persona e la sua andatura snella e spigliata: tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo’ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; e anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno».

Fra i primi Salesiani

Fu assolutamente naturale quindi per Paolo Albera vestire la talare da chierico, il 27 ottobre 1861, e l’anno dopo, il 14 maggio 1862, essere uno dei ventidue primi salesiani. «Quella sera – così narra don Bonetti – dopo molti desideri si emisero la prima volta formalmente i voti di povertà, di castità, di obbedienza dai vari membri della Pia Società novellamente costituita, che… a ciò si sentivano chiamati. Oh come bello sarebbe il descrivere in quali umili modi si compiva questo atto memorando! Ci trovammo stretti stretti in una angusta cameretta, ove non avevamo scranni per sederci. La maggior parte dei membri si trovava nel fior degli anni, chi nella rettorica, chi nel primo e secondo anno di filosofia, alcuni nei primi corsi di teologia e pochi nei sacri ordini… Facemmo dunque in numero di 22, non compreso don Bosco, che in mezzo a noi stava inginocchiato presso il tavolino su cui era il Crocifisso, i nostri voti secondo il regolamento». Dopo ciò don Bosco, alzatosi in piedi, ci indirizzò alcune parole per nostra tranquillità e per infonderci maggiormente coraggio per l’avvenire: «Chi sa che il Signore non voglia servirsi di questa nostra Società per fare molto bene nella sua Chiesa! Da qui a venticinque o trent’anni se il Signore continua ad aiutarci, come fece finora, la nostra Società sparsa per diverse parti del mondo potrà ascendere al numero di mille soci… Quanto bene si farà!» Paolo Albera aveva diciassette anni. Da quel momento la Congregazione Salesiana sarà tutta la sua vita. Molti pensavano che l’opera di don Bosco fosse completata. Non facevano i conti con la sua formidabile visione creativa. Proprio al timido e serio chierico Albera, alla fine di quell’anno, don Bosco svelò il suo prossimo passo: «Paolino, la nostra Chiesa di san Francesco di Sales è troppo piccola: non contiene tutti i giovani, o pure vi stanno addossati l’uno all’altro. Quindi ne fabbricheremo un’altra più bella, più grande, magnifica e le daremo il titolo: Chiesa di Maria Ausiliatrice». La salute di don Bosco destava sempre più preoccupazioni, ma la “rivoluzione salesiana” era solo all’inizio. Nel 1863, un primo gruppo di salesiani, tutti giovanissimi, sciamò da Valdocco per fondare la casa di Mirabello Monferrato. Fu il primo passo di un’espansione che continua oggi, dopo 157 anni. Nei cinque anni di Mirabello, Paolo Albera dimostrò capacità prodigiose. Insegnava nel ginnasio, compì gli studi teologici e si laureò in lettere all’Università di Torino. Fu ordinato prete nel 1868 e don Bosco lo richiamò a Torino. Aveva bisogno di chi facesse le sue veci nel trattare le pratiche di accettazione dei giovani nell’Oratorio: delicatissimo ufficio, che richiedeva molto buon senso e molto buon cuore: qualità che non mancavano a Paolo Albera. Nei due anni in cui ebbe questa carica, durante la quale imparò a conoscere tante miserie umane, fece anche parte del Consiglio della nuova Società.

«Sarà il mio secondo…»

Don Bosco aveva un fiuto straordinario per gli uomini. È uno dei suoi tanti segreti. Sapeva che sotto l’apparenza riservata e mite di Paolo Albera si celavano un animo adamantino e una volontà d’acciaio. Perciò nell’ottobre del 1871, lo inviò ad aprire una nuova casa a Genova, nel sobborgo di Marassi. Il giovane prete aveva appena 26 anni, e il compito avrebbe fatto tremare chiunque. Lui pensò di portare con sé qualche centinaio di franchi per far fronte alle prime spese indispensabili e ne chiese l’autorizzazione a don Bosco. Il buon padre lo guardò sorridendo e si fece consegnare il denaro. Gli restituì quel tanto che gli era necessario per pagare il viaggio a sé e ai suoi compagni, dicendogli: «Va’ tranquillo! Per domani ci penserà il Signore!» Don Albera capì perfettamente il messaggio di don Bosco. Da quel momento, per tutta la vita, si abbandonò completamente alla Provvidenza. Come don Bosco. E il Signore per mezzo di molte caritatevoli persone venne talmente in soccorso al nuovo Istituto, che l’anno appresso poté essere trasportato in una più ampia e comoda sede a Sampierdarena con uno sviluppo che stupisce ancora oggi. Qui divenne anche la sede di un’altra opera fondata dal Venerabile per dare alla Chiesa presto molti e buoni preti, intitolata: Opera di Maria Ausiliatrice per le Vocazioni degli adulti allo Stato Ecclesiastico. C’erano delle difficoltà, naturalmente, ma a chi gliele riferiva, don Bosco rispose: «Don Albera non solo ha superate, quelle difficoltà, ma ne supererà tante altre, e sarà il mio secondo…» Non finì la frase, ma passandosi una mano sulla fronte stette come assorto in una visione lontana, poi proseguì: «Oh sì, don Albera ci sarà di grande aiuto!» Presente alla conversazione c’era un giovane ventenne, che divenne salesiano e sacerdote e divenne il terzo successore di don Bosco: don Filippo Rinaldi. Don Bosco era come un albero magnifico che estendeva rami poderosi. Il futuro dell’opera salesiana cresceva intorno a lui.

Il “piccolo don Bosco”

Ora tutti sapevano quanto valesse don Paolo Albera. Nell’ottobre del 1881 fu mandato a Marsiglia ispettore delle Case di Francia. Là si conquistò il nome di «piccolo don Bosco», come lo definirono i giornali e i tanti ammiratori dell’Opera Salesiana. Nominato nel 1892, Catechista generale della Pia Società Salesiana, nel 1900 ebbe da don Rua l’incarico di visitare, come suo rappresentante, tutte le Case Salesiane delle due Americhe. Per tre anni, con i mezzi di trasporto rudimentali dell’epoca e infiniti disagi, visitò tutte le presenze salesiane del Nuovo Mondo. Ne ritornò entusiasta: «Il nome di don Bosco spianò le vie, vinse gli ostacoli, guadagnò i cuori, creò simpatie, e perché non dirlo? slegò le borse, e ne trasse i mezzi con cui fondar case, laboratori, scuole, oratorii festivi, chiese, ospedali e quanto occorreva alla salvezza di innumerevoli anime. Non è un effimero entusiasmo, né col tempo viene meno la dolce attrattiva e la salutare impressione che esercita sui cuori il nome di don Bosco, che continua ad essere pronunziato in America con venerazione e riconoscenza da Prelati, da Presidenti e Ministri di Governo, da ogni ceto di persone, da popoli intieri…». Ripeteva spesso: «Quanto è amato don Bosco! quanto ci ama Maria Ausiliatrice!» Don Albera era talmente stimato che sembrò assolutamente naturale eleggerlo Rettor Maggiore, il 16 agosto 1910. Appena eletto corse sulla tomba di don Bosco: «Lamentandomi fortemente con lui perché avesse lasciato cadere in sì misere mani il timone della navicella salesiana. A lui, più col pianto che con le parole, esposi le mie ansie, i miei timori, la mia estrema debolezza, e poiché mi era giocoforza portare la pesantissima croce che era stata posta sulle vacillanti mie spalle, lo pregai con tutto fervore perché mi venisse in aiuto. Mi alzai da quel sacro avello di Valsalice, se non del tutto rassicurato, almeno più fidente e rassegnato. Non occorre aggiunga che promisi a don Bosco e a don Rua che nulla avrei risparmiato per conservare nella nostra umile Congregazione lo spirito e le tradizioni che da loro abbiamo imparato». Il Signore benedisse ampiamente la sua vita laboriosa, piena di sollecitudini e di opere buone. Gli diede la consolazione di veder benedette le sue fatiche, nel numero dei salesiani aumentato di quasi un migliaio durante il suo Rettorato, nonostante i vuoti causati dalla guerra; nel numero delle case aumentate di 103; nelle nuove Missioni aperte in Africa, nel Congo belga: in Asia, nella Cina e nell’Assam: in America nel Rio Negro in Brasile e nel Chaco Paraguayo; nella crescita dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che sostenne con affetto; nelle varie case di formazione di nuovo personale; e nei nuovi e fiorenti Oratori festivi. Il Signore gli concedette infine la grazia di superare l’ardua prova della guerra, di veder la Pia Società riprendere il ritmo normale, con sempre maggiore attenzione alla vita spirituale. Morì il 29 ottobre 1921, in silenzio, discretamente come sempre. Prima del recente trasferimento nella Basilica di Maria Ausiliatrice, fu sepolto presso don Bosco e don Rua a Valsalice. Era giusto che avesse la tomba, là dov’ebbe la mente e il cuore.

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