Romania: i crimini dei comunisti e dei collaborazionisti scismatici
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova Insorgenza
Comunicato n. 105/17 del 15 dicembre 2017, San Valerian
Romania: i crimini dei comunisti e dei collaborazionisti scismatici
In Romania numerosi vescovi e preti fedeli a Roma, perseguitati dal regime comunista con la collaborazione degli scismatici eterodossi, furono internati nel lager di Sighet: http://www.memorialsighet.ro/
Sull’argomento pubblichiamo alcuni brani tratti dal libro “Catene e torture” di Mons. loan Ploscaru (1911-1998). Vescovo cattolico unito romeno, Mons. Ploscaru per 15 anni fu detenuto nelle carceri del regime comunista romeno.
Pellegrinaggio al Memoriale delle Vittime del comunismo e al Cimitero dei poveri di Sighet
Gli arresti si facevano, nella maggioranza dei casi, di notte e questo secondo un metodo russo, lungamente sperimentato. La notte amplifica i sentimenti, irrobustisce la convinzione dell’inutilità della resistenza, deprime l’individuo e lo porta sull’orlo della disperazione. Ma la notte ha anche un altro ruolo. Difende quelli che arrestano – attivisti, militari e agenti della Sicuritate – perché non siano riconosciuti e accusati dei fatti commessi. La notte dà loro il coraggio di attaccare in branco, dà loro un sentimento di invincibilità, ma pur nascondendosi in questo modo nell’ignoranza, non possono negare il dramma che vivono in quanto esseri umani. Fuggiti per paura dell’arresto, tanti hanno trascorso molto tempo nei boschi, sotto i ponti, in cantine con pareti doppie, cappelle e molti altri posti nei quali hanno vissuto un vero e proprio calvario perché non volevano rinunciare alla loro fede.
C’era bisogno di un vero eroismo per poter resistere perché non è semplice lasciare alle spalle una famiglia, moglie, figli — i quali hanno diritto a una vita normale, ma devono essere abbandonati alla mercè delle autorità che sono arrivate a intimidirli, a minacciarli e spesso anche a arrestarli. E questo solo perché nelle loro vene scorre il tuo stesso sangue. Quante volte la tensione emotiva ha raggiunto il culmine nelle famiglie dei preti, quando la moglie — per salvare i figli – insisteva col marito per un compromesso. Col tempo, molti uomini consideravano inutile la lotta per la fede.
Il parroco Ionità Pop di Lupeni ha raccontato come procedeva la Sicuritate locale. Il loro capo. Al. Cosma. era figlio di un ex prete greco cattolico di Urìcani. I “Clienti” erano chiamati alla Sicuritate dove erano trattati bene. Gli si proponeva un comportamento nuovo, una ricompensa, un lavoro e molte altre cose. Nel caso “l’Invitato” non accettasse, con tutta la gentilezza era trattenuto fino di notte. Quindi era liberato. Per le strade nelle quali si sapeva che doveva passare, lo aspettavano dei ‘Battitori” che lo sfiguravano, lasciandolo a volte addirittura morto. Questa procedura era usata in tutta la regione.
In questo tipo di realtà, il concetto di “Unifìcazione” (tra Chiesa Ortodossa e Chiesa greco-cattolica) è percepito come immorale, o meglio criminale, a causa dei terrore e come irrealizzabile dal punto di vista giuridico. Per la Chiesa Ortodossa non fu un merito, ma la più grande macchia della propria storia, diventare moralmente colpevole dell’uccisione dei vescovi greco-cattolici e di molti preti e fedeli. Ancor prima di scegliere il Patriarca, furono convocati a Mosca tutti i patriarchi ortodossi dei paesi occupati dai russi, come anche i rappresentanti di altri paesi in cui era presente la Chiesa unita con Roma. Come abbiamo saputo più tardi, a questo sinodo dei vescovi ortodossi, è stato trattato il problema della soppressione della Chiesa greco-cattolica, come una condizione per la collaborazione della Chiesa ortodossa con i regimi comunisti».
I preti erano minacciati con la deportazione in Siberia, lo sfratto dalla casa e la perdita di ogni possibilità ad occupare un servizio pubblico, l’arresto dei membri della famiglia, la minaccia della fucilazione e molte altre… o la liberazione nel caso avessero firmato la conversione alla Chiesa ortodossa. Ecco alcuni casi:
Al prete Vasile Berinde dì Bucova, padre di tre figli settantenne, che aveva rifiutato tutte le proposte e resistito a tutte le minacce hanno applicato il supplizio di Brancoveanu nel senso psicologico: “Buttìamo fuori i tuoi figli dal posto di lavoro”. “Io non lascio la mia fede!” fu la sua risposta. Dopo alcuni giorni arriva a casa l’ingegnere di Huneduara, licenziato. In seguito il contabile di Orastie, anche lui licenziato. Alla fine, il più piccolo, studente del liceo di Lugoj, è smatricolato. Per una settimana la moglie piange e i figli lo supplicano di firmare. Ha firmato uno dei suoi figli, lui s’è ritirato nel suo paese natale, dove è morto.
Il freddo cresceva. Il gelo dell’Epifania era molto difficile da sopportare. Il sonno era molto corto perché l’aria corrente veniva da tutte le parti e sul tetto di legno si pativa il freddo che saliva dal pavimento in cemento. Solo alcune ore per notte.
Il 20 gennaio 1950 è venuto il colonnello Moi. Ha aperto la finestrella della mia cella. Io, come al solito, pregavo in ginocchio sul letto avvolto nella coperta. Tremavo dal freddo. Ha aperto la porta. L’ho salutato. “C’è così freddo qui dentro?” ha chiesto. “Adesso in tutti i posti c’è freddo, è inverno”, mi sono scusato perché non mi spostasse. Quindi ha fatto un passo dentro la cella, dove all’improvviso l’ha colpito una folata dì aria gelida che proveniva dalla finestra rotta… Rifiutavo di essere spostato, pregando il luogotenente Vezelici che mi lasciasse nella cella numero 2. Un nuovo interrogatorio,. Moìs mi ha chiesto: “Perché non sei voluto andare in una cella più calda? Forse perché sei solo’?”. Vedendo che non era una trappola, sinceramente ho risposto: “Quando sono state arrestato ho promesso a Dio di accogliere tutte le sofferenze che mi avesse mandato. Adesso ho l’impressione che Dio mi abbia dato questa croce, quindi non ho cercato né di schivarla, né di risparmiarmi. Il colonnello ha continuato: “Non devi distruggerti la salute per la promessa ce hai fatto; quando puoi avere una camera più calda perché non puoi prenderla? Il resto sono solo sciocchezze”. Allora ho pensato al modo in cui, dopo il mio arresto, mi aveva tolto dalla cella calda urlando: “Per i tuoi fatti da bandito sei qui. Mettetelo nella cella numero 2”».
In inverno si raggiungeva il massimo della sofferenza. Gli interrogatori, come anche le percosse si svolgevano nel piano sopra le nostre celle. Dai rumori che sentivamo, capivamo che cosa succedeva, come anche dalle grida di coloro che erano torturati. Noi conoscevamo sia coloro che interrogavano, sia le vittime. Gavrile raccoglieva altre informazioni quando lo mandavano a scopare per la prigione.
Di sera, verso le 19, si preparavano per gli interrogatori chiudendo le finestre con un rumore assordante. Poi mettevano sulle finestre delle radio col volume al massimo perché coprisse le urla delle vittime. Fuori si sentiva solo della musica dolce e armoniosa, ma dentro le torture si applicavano in modo scientifico».
I metodi usati durante gli interrogatori erano i seguenti:
Botte sotto i piedi con le spranghe di ferro, dopodiché la vittima era costretta a fuggire perché non gli si gonfiassero i piedi. Questo supplizio si ripeteva varie volte, provocando così la slogatura delle ossa del metatarso.
Botte sui cavalletti: questa era la punizione più usata. Il detenuto, con mani e piedi legati, avvolgeva le braccia intorno alle gambe. Tra le ginocchia e le braccia era infilato un bastone che veniva sollevato su due cavalletti o su due tavoli. Con la testa in giù e i piedi in su, la vittima era picchiata finché riconosceva le accuse.
Il metodo del tappeto: il detenuto era legato mani e piedi e avvolto in un tappeto. Messo in piedi veniva percosso con violenta. Il disgraziato cadeva, schiacciandosi la faccia, il naso, i denti, le braccia… A volte addirittura lo mettevano in piedi legato su un tavolo e gli ordinavano di saltare giù, oppure lo spingevano bloccandogli i piedi, in modo che cadesse a terra con la testa.
Botte col sacco di sabbia: la vittima era legata per le mani sopra la testa. Così immobilizzata, era picchiata con un lungo sacco riempito di sabbia. L’urto spostava gli organi interni senza che si vedessero segni esternamente. Sul corpo non rimaneva nemmeno un segno, ma gli organi interni, polmoni, cuore, fegato, reni, erano fortemente compromessi. Dopo un po’ dì tempo, il detenuto sentiva dolori forti in tutti le parti del corpo e veniva ricoverato come malato comune: TBC, epatite, malattia ai reni… Anche i medici generalmente erano complici della Sicuritate.
Noi nel sottosuolo ascoltavamo terrorizzati, come gli animali ascoltano gli urli di morte degli altri animali condannati a morte.
Alcuni degli aguzzini appendevano le vittime con le mani legate a un chiodo, lasciandoli che toccassero leggermente a terra. Quella posizione li stancava e quando la vittima si lasciava andare, gli si rompevano quasi le braccia.
Isolamento. Alcune volte era peggio delle torture. Ti chiudevano in una camera d’isolamento, senza nessun mobile, e sul pavimento versavano dell’acqua. Dopo uno o due giorni, i piedi si gonfiavano, il cuore non resisteva più. La vittima o cadeva nell’acqua o chiedeva di essere portata a fare la confessione voluta…
In questo tempo e in queste circostanze, era una fortuna notevole non essere picchiati. Tuttavia, non tutti erano torturati. Nemmeno io fui torturato in quel periodo. Dopo aver assistito a così tante percosse e torture, come testimone auricolare, era normale che mi aspettassi di essere messo anch’io “sotto torchio”. Eravamo rassegnati. Quanto posso, voglio resistere…
Le privazioni che abbiamo patito sono le più gravi della mia vita, e ho potuto offrire a Cristo, non solo parole, ma anche fatti. Dopo l’uscita dalla prigione, la mia esistenza mi è sembrata priva di senso, priva del suo merito più importante.
Essendo in cella insieme, noi preti facevamo un programma di preghiera e di meditazione comune. Dopo la sveglia, alle cinque, ci lavavamo. Nella cella avevamo due secchi, uno con l’acqua pulita e l’altro per le necessità fisiologiche. Ci lavavamo sopra le tinozze, versandoci un bicchiere di acqua a testa.
C’era poi la preghiera individuale del mattino e la meditazione fatta dal vescovo Ioan Suciu, fin quando rimase con noi in cella. Dopo che fu spostato, abbiamo continuato noi a fare la meditazione quotidiana. Dopo la meditazione seguiva un tempo di silenzio. I guardiani che ci controllavano rimanevano stupiti del nostro silenzio: “Perché state in silenzio con tutti?”. Gli abbiamo spiegato che pregavamo. E rimanevano stupiti del fatto che noi non ci picchiavamo come gli altri detenuti di diritto comune.
Il più grande tormento nella prigione di Sighet era la fame. Il regime alimentare di questa prigione era calcolato con molta attenzione, in modo che il detenuto non sarebbe morto subito ma sarebbe dimagrito gradualmente per la fame. Gli alimenti — oltre al fatto che erano insufficienti — si guastavano a causa dell’incapacità dei cuochi. Si portavano dal magazzino una certa quantità di patate, ma nel pulirle le gettano la metà. La verza, messa sotto aceto senza essere stata pulita bene dalle foglie marce, arrivava ad avere un odore di alimenti degradati; il grano e i fagioli coi vermi… Il menu era quasi tutti i giorni uguale.
Al mattino, granturco macinato con la pannocchia e bollito in acqua.
A pranzo un solo piatto: zuppa di cipolla o di verza, di grano, fagioli o zuppa di patate. Andavamo con le scodelle alla porta dove il guardiano dava ad ognuno un mestolo dì questa brodaglia acquosa nella quale galleggiavano alcuni degli alimenti che ho accennato. Alcune volte portavano gli scarti del macello dei quali le parti buone erano prese dai guardiani, mentre le ossa (senza essere pulite), i pezzi di addome della mucca o i nervì finivano nella nostra scodella.
Alla sera un mestolo con qualcosa per alleviare i crampi della fame.
La razione giornaliera dì pane era di 250 grammi, ma non era mai rispettata questa quantità. Il venerdì invece del pane prendevamo un vezzo di polenta.
Per quelli ammalati di stomaco o di ulcera, il regime alimentare di Sighet era la strada più sicura per arrivare alla morte. Dopo mesi e anni con questo regime alimentare, non esisteva un detenuto che sognasse di notte un pezzo di pane appena sfornato.
Curioso il fatto che non desideravamo piatti speciali, ma solo un minimo di mangiare sano: un pezzo di pane fresco!
Si avvicinavano le feste di Natale del 1950. I ricordi ci avvolgevano. Stabilimmo un programma di Colinde (canti tipici natalizi che annunciano la nascita di Gesù) e dì riflessioni per la notte di Natale. Il vescovo Ioan Suciu aveva il dono straordinario di saper esporre in modo poetico e carico di emotività tutto quello che meditava.
E’ arrivata questa sera così aspettata. Abbiamo colindato pian piano e ci siamo raccontati le tradizioni natalizie. Improvvisamente un rumore di passi nel corridoio e la porta che si apre. Probabilmente il guardiano aveva avvisato l’ufficiale di guardia, che era un po’ ubriaco, questi è entrato con la pistola in mano. L’ha indirizzata al vescovo Suciu e gli ha ordinato di coricarsi, ma non glielo abbiamo lasciato fare. Quindi ha minacciato di sparare, intimandoci di tacere; dopo che è uscito, il vescovo con tranquillità ha detto: “Non potevamo avere un Natale senza Erode!” Così ci hanno interrotto la festa, ma chi può bloccare il volo invisibile del pensiero!
(Dal libro di Mons. loan Ploscaru: “Catene e torture”)