Ad Erbil c’era la neve…
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 39/16 del 3 maggio 2016, Sant’Alessandro
L’olocausto del cristianesimo iracheno: centinaia di cristiani massacrati, i superstiti cacciati dalle proprie terre o prigionieri dei terroristi. A differenza di altre tragedie, il genocidio dei cristiani iracheni (che non appartiene al passato, ma si sta consumando giorno dopo giorno) non interessa all’Occidente.
Un servizio de “Il Giornale” descrive il dramma dei sopravvissuti, che non esistano ad affermare: “Abbiamo capito una cosa. Questa Isis è una creazione occidentale. Forse americana”.
Cristiani a tu per tu con l’Isis
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A suor Silvia tremano le labbra mentre si torce le mani e contorce il viso in una smorfia per non piangere. Trattiene le lacrime, sorride forzatamente e sospira. “Quando Isis si stava avvicinando al nostro convento di Qaraqosh – spiega strofinandosi le mani nella veste – Prima abbiamo fatto evacuare le suore anziane e dopo una settimana siamo scappate anche noi giovani. Alcuni musulmani andavano in giro dicendo che tutti i cristiani dovevano scappare, altrimenti li avrebbero sterminati. Soprattutto le donne dovevano andarsene.”
“Siamo salite su un pick-up, nella notte buia piena di urla. Sparavano. Abbiamo viaggiato fino ad Erbil: polvere dappertutto, grida, panico. Un inferno. Poi ci hanno detto che i miliziani di Daesh avevano invaso le nostre case e… – gli occhi le si riempiono di lacrime – E basta.”
Silvia è una delle sedici suore domenicane fuggite dalla città che fu cristiana di Qaraqosh. Un tempo, la città contava cinquantamila abitanti; ora, la pagina Wikipedia ne segna zero. Zero. Sta in questa cifra la tragedia dei cristiani che si sono lasciati tutto alle spalle pur di continuare a vivere la propria fede. Chi è rimasto, ha dovuto scegliere tra la conversione all’islam e la morte.
In molti, fra gli sfollati ad Erbil, sono sfuggiti alle grinfie delle bandiere nere per poche ore, a volte per qualche minuto. È il caso di padre Jalal Yako, prete rogazionista che dopo aver svegliato tutti i suoi fedeli per avvertirli del pericolo imminente è tornato a dormire. “I miei confratelli mi avevano detto che era sicuro”, ci spiega mentre passeggiamo nel campo profughi dove si è trasferito a vivere insieme alla gente della sua vecchia parrocchia. Per fortuna alle due di notte una famiglia lo ha svegliato e lo ha fatto salire su un bus diretto verso il fronte curdo. Nessuno lo voleva prendere a bordo: “nella confusione la veste nera da prete faceva sì che mi scambiassero per un jihadista”, sorride amaro.
C’è anche chi è stato sorpreso dall’invasione mentre era bloccato in casa, come il sessantatrenne Benham Durdur, intrappolato nella città invasa per non abbandonare il padre invalido in barella. “Per dieci giorni sono rimasto barricato in casa, spiando i jihadisti dal buco della serratura – ci racconta dalla sua nuova casa, una palazzina che spartisce con un’altra famiglia cristiana – Quando ho finito l’acqua sono dovuto uscire. I miliziani di Isis mi hanno spedito a Mosul per convertirmi all’islam, ma io ho preso la via del confine e grazie a Dio sono riuscito a passare in Kurdistan.”
Non tutti, però, sono stati così fortunati. La famiglia Ebada – padre, madre e quattro figli – non ha avuto la prontezza di fuggire in tempo. La notte del dieci agosto 2014 è rimasta in casa ed è stata catturata dalle bandiere nere. I terroristi hanno concesso di abbandonare Qaraqosh a cinque persone, ma non alla sesta. La piccola Cristina, tre anni, è stata rapita come dono per uno dei capibanda dei tagliagole.
“Eravamo già sul bus – mormora con un filo di voce la madre – quando un giovane barbuto è salito urlando e ha preso mia figlia per un braccio. Lei viene con noi, ha gridato. Io mi sono opposta, ma lui ha replicato che se non gli avessi lasciato la bimba avrebbe ucciso tutta la famiglia. Non ho potuto fare niente…”
La donna tace. Gira lo sguardo ormai vuoto sulle pareti spoglie del container di pochi metri dove vive con il marito e i tre bambini che le sono rimasti. Il più piccolo ha per giocattolo un fucile di plastica. Al muro è appesa una foto di Cristina, incorniciata da un rametto d’ulivo.
“Da due anni non so nulla di lei – bisbiglia la madre, già intervistata da Gli Occhi della Guerra nel 2014 – Mi hanno solo detto che è affidata a un uomo di nome Amir: uno dei loro capi.”
Quindi mi mostra una foto che i jihadisti le hanno inviato via Facebook: la bimba sorride un po’ incerta, si vede che è cresciuta. Nessuno sa se stia bene, dove si trovi, con chi sia. Di Cristina non si sa nulla.
Nei primi tempi alcuni amici musulmani della famiglia fornivano qualche informazione, poi più niente. Probabile che i suoi aguzzini non siano iracheni ma stranieri, forse arrivati dall’Asia centrale o dalle ex repubbliche sovietiche.
Mercenari mascherati di cui si sa poco o nulla. Misteriosi come l’Isis stesso, che negli stessi cristiani suscita dubbi e perplessità.
“È impossibile che quattro mascalzoni mettano in movimento tutti questi popoli – si domanda scettico padre Jalal – Senza che nessuno li disturbi. C’è dietro qualche interesse, forse un giorno capiremo.”
Quindi si allontana, si stringe nelle spalle e sbotta: “Abbiamo capito una cosa. Questa Isis è una creazione occidentale. Forse americana.”