Il terrorismo risorgimentale: la strage alla caserma Serristori
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 90/20 del 22 ottobre 2020, Santa Cordula
Il terrorismo risorgimentale: la strage alla caserma Serristori
Ricordiamo la strage del 22 ottobre 1867 alla caserma Serristori di Roma, ad opera di rivoluzionari italiani, con una brano del libro di Francesco Maurizio di Giovane, Gli Zuavi Pontifici e i loro nemici, Solfanelli Editore, 2020, pagg. 151-152.
http://www.edizionisolfanelli.it/glizuavipontifici.htm
(…) Verso le sette e mezzo di sera, una potente esplosione fu sentita in tutta la città. Andarono a pezzi molti vetri delle abitazioni. Tutti i militari che erano disimpegnati negli scontri con i rivoluzionari corsero sul luogo della detonazione. Il rumore proveniva da un sito vicino al Tevere, a Borgo Santo Spirito, tra Castelfidardo Sant’Angelo e San Pietro. Ben presto il nome Serristori corse di bocca in bocca. Era il palazzo ove aveva la sede la caserma dello stato maggiore e di tre compagnie di zuavi pontifici. Era saltato in aria tutto il lato orientale della caserma. Fu una scena orribile. Si sentivamo urla strazianti dei feriti di cui si ignorava il numero. Il buio non permetteva di constatare l’entità del disastro e gli abitanti del vicinato erano nella più totale disperazione frutto della paura. La bomba era stata collocata in un magazzino militare attiguo alla caserma. L’attentatore, Gaetano Tognetti, si era procurato una copia della chiave di accesso al magazzino da un suo complice, tal Giuseppe Monti, ed aveva introdotto due barili di polvere nel sotterraneo, dando fuoco alla miccia. L’esplosione era stata violenta. Aveva mandato in frantumi i vetri delle abitazioni vicine e delle lampade stradali, facendo piombare il quartiere in un buio inquietante. Soltanto quando il fumo si dissolse, si riuscirono a contare i danni. La facciata della caserma e una buona parte dei tre piani del corpo di fabbrica erano crollati, seppellendo coloro che erano all’interno dei fabbricato. Gli zuavi sopravvissuti non avevano perso il loro proverbiale sangue freddo alla catastrofe. Comandati dall’intrepido aiutante de Bellevue, essi accesero delle torce, presero le armi e uscirono dalle macerie della caserma nel momento in cui una banda di garibaldini o meglio un’orda di assassini si appressava sulla caserma per portare a termine l’opera infame attraverso il massacro dei soldati sfuggiti alla esplosione. Furono ricevuti a colpi di fucile e fuggirono dopo le prime scariche. Monsignor de Mérode, il colonnello Allet, Monsignor de Woelmont, il canonico Daniel, il dottor Vincenti chirurgo del reggimento, M. Reusens, incaricato d’affari del Belgio, furono tra i primi ad accorrere sul posto. Aiutarono gli zuavi incolumi e i pompieri ad estrarre morti e feriti dalla palazzina completamente crollata. Ci volle più di un’ora per estrarre dalle macerie una povera vittima. Il cappellano si aggirava fra le rovine per impartire qua e là l’estrema unzione. Concedeva l’assoluzione generale. Si raccoglievano pietosamente i morti. In un caso ci vollero tre ore per estrarre dalle macerie un ferito. In questo terribile attentato morirono 25 zuavi: otto francesi, un belga, un austriaco e quindici italiani di cui nove appartenevano alla banda musicale. Nove furono feriti.
Costoro furono trasportati all’ospedale. Tra civili morirono Francesco Ferri e sua figlia Rosa (*), di sei anni che al momento dell’esplosione stavano in quei luogo. La moglie del Ferri morì dopo qualche giorno per le ferite riportate. Le vittime furono: Carmine Cadetti, di Olevano; Luigi Carrey, di Arbois; Giuseppe Cerasani, di Roma; Fortunato Chiusaroli, di Roma; Emilio Claude, di Nancy; Federico Cornet, di Namur; Alessio Desbordes, dell’Isola Oléon; Cesare Desideri, di Roma; Federico de Dietfurt, di Strasburgo; Giovanni Devorscek, di Bologna; Luigi Flamini, di Roma; Giovanni Lanni, di Roma; Eduardo Larroque, di Cahors; Michelangelo Mancini, di Roma: Pietro Mancini, di Roma; Stefano Melin, di Moulins; Francesco Miranda, Portici: Antonie Partel, di Vigo (Tirolo); Giacomo Poggi, di Genova; Andrea Portanuovo, dì Napoli; Edmondo Robinet, di Saint-Pol-de-Leon; Nicola Silvestrelli, di Roma; Orneste Soldati, di Palestrina; Domenico Tartavini, di Roma: Vittore Vichot, dì Parigi.
Tutta la nobiltà romana nonché il Re del regno delle Due Sicilie accorsero sul luogo e si complimentarono per l’abnegazione degli zuavi. Un picchetto in armi di zuavi vegliò sulle salme dei commilitoni ed il bilancio dei morti avrebbe potuto essere più grave perché una compagnia di zuavi era uscita poco prima dell’esplosione per recarsi a porta San Paolo, mentre altri nuclei prestavano servizio nel quartiere per prevenire disordini.
(*) «A Rosa Ferri, questa bambina che indossa quel giorno un vestitino azzurro, nel terzo anniversario della morte (22 ottobre 1870, ndr) andò l’omaggio di molti romani che si recarono al rione Borgo per deporre dei mazzi di fiori con degli enormi nastri azzurri, ma essendo l’azzurro anche il colore della corpo degli Zuavi, il gesto fu male interpretato dai carabinieri italiani che dispersero i manifestanti e arrestarono gli uomini e i ragazzi che si trovavano nel gruppo (Marianna Borea, L’Italia che non si fece, Armando Editore, 2013, pag. 248)».