Haganah, i precursori dell’Isis
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 11/17 del 27 gennaio 2017, San Giovanni Cristostomo
Haganah, i precursori dell’Isis
Il terrorismo delle bande sioniste determinò l’esodo dei Cristiani dalla Terra Santa, che prima del 1948 rappresentavano oltre il 20% della popolazione palestinese. Terrorizzati dagli attentati compiuti dai precursori dell’Isis, miglialia di Cristiani abbandonarono i loro villaggi, che furono poi rasi al suolo – chiese, case, cimiteri – dall’esercito israeliano, cancellati per sempre dalle cartine della Terra Santa.
Per non dimenticare le vittime cristiane dei crimini sionisti, pubblichiamo la narrazione dell’attentato dinamitardo compiuto nel gennaio del 1948 dai terroristi della Haganah all’Hotel Semiramis di Gerusalemme, di proprietà cristiana, che provocò la morte di 36 persone, tra cui un’intera famiglia cristiana di 18 persone e il vice-console spagnolo, Manuel Allende Salazar.
« …Srotolandosi sopra le colline, un tappeto di nubi color piombo stava invadendo il cielo di Gerusalemme, minacciato un furioso temporale. Nello stesso momento in cui Shacham aveva condannato l’albergo dove si erano rifugiati, i diciotto membri della famiglia Aboussouan stavano andando a Messa. Nella chiesa di Santa Teresa, la pia madre del dentista esortò tutti a confessarsi e fare la comunione, «unica vera protezione contro i pericoli che ci minacciano». Un nuovo membro della famiglia Aboussouan giunse all’albergo. Wida Kardous era la figlia del governatore della Samaria, e i suoi genitori l’avevano mandata a Gerusalemme per trascorrervi la fine delle vacanze di Natale. Prima di colazione, Manuel Allende Salazar, il giovane diplomatico spagnolo che abitava nell’albergo, andò a restituire a Samy Aboussouan un libro. I due uomini si misero a ridere, rilevando come il titolo del libro corrispondeva alla loro situazione. Era intitolato Viaggio nell’assurdità.
Annunciato da un rombo di tuoni, il temporale, che sembrava imminente nel pomeriggio, scoppiò al cadere della notte. Mentre i lampi solcavano il cielo, un vero diluvio si abbatté sulla città, trasformando le strade del Katamon in torrenti di fango. Colpendo i tralicci o i fili della conduttura elettrica, un fulmine fece piombare il quartiere nell’oscurità. Spaventate, due vecchie zie di Aboussouan cominciarono a dire il rosario, mentre la servitù correva in cerca di candele. Quella sera, il pranzo fu piuttosto lugubre. (…)
A meno di un chilometro di distanza, all’ultimo, piano della casa di un chirurgo ebreo, quattro uomini erano riuniti sopra la pianta di Gerusalemme. Con il dito, Mishael Shacham segnò la strada che doveva portarli al loro obiettivo. I quattro del commando sarebbero stati coperti da una squadra della Haganah. Fuori, nella strada spazzata dalla pioggia, li aspettavano la Humber e la vecchia Plymouth, con le quali avrebbero raggiunto il Semiramis. Una volta sul luogo, avevano esattamente dieci minuti per forzare la porta della cantina e introdurvi le loro valigie contenenti settantacinque chili di TNT, collocare le cariche sotto i principali pilastri che sostenevano l’edificio, accendere la micce e sparire. “Ora H: l’una del mattino” stabilì Shacham.
La pioggia seguitava a inondare la città. All’Hotel Semiramis, Samy Aboussouan depose un candeliere in mezzo a una tavola da gioco, per fare mano a bridge con tre dei suoi cugini. Il console di Spagna rientrò di buon’ora, ritirandosi subito nella sua stanza. In un angolo del salone, le due vecchie zie stavano sempre sgranando il rosario. Poco dopo le undici, tutti andarono a coricarsi. A mezzanotte, l’ultima candela era stata spenta. (…).
La Humber e la Plymouth giunsero con quindici minuti d’anticipo. Non vi era nessuno di guardia allo sbarramento che avevano superato. Dal cortile del convento ortodosso, posto davanti all’albergo, l’unica sentinella araba vide una delle due macchine fermarsi davanti alla cucina del Semiramis. (…) La porta della cantina era inchiavata. Bestemmiando nel buio, l’ebreo Avram Gil staccò dalla sua cintura una bomba a mano, fissandola alla maniglia della porta. L’esplosione fece uscire dai cardini i battenti. Gil e altri due membri del commando s’introdussero nei sotterranei pieni di fumo, con le loro valigie.
La pioggia diu vetrim rotti svegliò Wida Kardous. Nella notte intese sua zia Maria chiamare. Poi un’altra voce inginse di stendersi a terra. Il rumore aveva ugualmente destato Samy Aboussouan. Per un istante credette a una zuffa in strada, poi udì dei passi scricchiolare sulla sabbia nel cortile e una voce dire in ebraico: “Non ancora, non ancora”.
Egli si alzò dal letto. (…) Poi corse al telefono. Più in fretta che poté, compose il numero dell polizia. “Stanno attaccando l’Hotel Semiramis con le bombe a mano” gridò all’inglese insonnolito che aveva risposto. Nei sotterranei intanto le cariche esplosive erano state fissate ai pilastri, ma Avram Gil e i suoi compagni non riuscivano ad accendere le micce, bagnate dalla pioggia. (…) “Yoel non riusciamo ad accendere le micce”. Il comandante li raggiunse con calma nel sotterraneo, accostandosi a una carica. “Ecco come bisogna fare in questi casi” spiegò. “non confondersi, lavorare con calma, e tutto finirà bene.” Mentre parlavano, tagliò, semplicemente, il pezzo di miccia bagnata con un temperino.
Di sopra, la zia Maria lasciò la mano della giovane Wida Kaordous. “Torno subito”, la rassicurò “vado a cercare una vestaglia.” Spaventata, Wida l’udì allontanarsi nel corridoio. Samy Aboussouan riattaccò la cornetta del telefono, dirigendosi verso il salone. Al piano di sotto, suo fratello Cyril dava il braccio a sua madre per farle scendere le scale. Suo padre li seguiva in vestaglia.
Dopo diversi minuti di lavoro per preparare le micce, il comandante del commando andò a raccogliere un pezzo di porta bruciacchiato dall’esplosione, vi soffiò sopra finché la brace emise una luce arancione con esso diede fuoco alla varie micce. “Adesso filiamo” disse con calma. (…)
Il rumore dell’esplosione destò quasi tutto il quartiere. Dalla finestra della sua camera, lo studente di diritto Peter Saleh, che era appena smontato dal suo turno di guardia, vide l’albergo esplodere come un geyser e poi ricadere su se stesso. Una nube di fumo e di povere si levò dalle rovine e l’onda d’urto si propagò con un rombo di tuono verso le colline della Giudea.(…) Svegliata dallo scoppio della bomba a mano, Kay Albuina aveva assistito dalla finestra della camera da letto allo svolgimento di tutto il dramma. Aveva udito la fuga delle vetture della Haganah e visto con terrore l’esplosione disintegrare lentamente, come in un film al rallentatore, i tre piani del Semiramis. Infermiera della Croce Rossa, prese la sua borsa, alcuni lenzuoli e si precipitò per aiutare i feriti.
Ma nessuno dei manuali di pronto soccorso, su cui aveva studiato, l’aveva preparata allo spettacolo che le si parò dinanzi, tra le rovine dell’albergo. Una donna dall’aria smarrita girava tra le rovine tenendo fra le mani la testa d’una bambina. Trentasei persone morirono nell’esplosione dell’Hotel Semiramis. Samy Aboussouan e Wida Kardous sopravvivere, ma la loro famiglia fu praticamente distrutta. (…). Tre giorni dopo l’esplosione, un cane, che grattava furiosamente tra le rovine che non aveva abbandonato, condusse i membri della squadra di soccorso all’ultima vittima ancora sepolta. Nascosto sotto un mucchio di macerie, trovarono il padrone del cane, il giovane diplomatico spagnolo. (…) Vittima d’una tragedia che non era la sua, Manuel Allende Salazar aveva finito il suo viaggio nell’assurdità…»
Tratto da: Dominque Lapierre e Larry Collins, “Gerusalemme! Gerusalemme!” (Oscar Mondadori, 1976).