Milano, Gorla e la strage dei 184 innocenti
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 82/15 del 20 ottobre 2015, San Giovanni Canzio
Il cielo è maledettamente azzurro su Milano, la mattina del 20 ottobre 1944. Così azzurro che la maestra della scuola elementare Francesco Crispi, in zona Gorla, è preoccupata: «È troppo terso, potrebbero bombardare. Noi siamo costretti ad andare a scuola, ma voi che potete…», dice incontrando sul ponticello del naviglio Martesana la piccola Graziella Ghisalberti, 7 anni, per mano con sua mamma e il cuginetto Edoardo di 6. Invece Graziella ed Edoardo, con i loro grembiulini neri, varcano il portone, come tutti i giorni da quando sono rientrati dalla Brianza, dove erano sfollati per paura della guerra: «Tanto ormai la guerra è finita», ripetevano gli adulti. E invece la guerra a Milano doveva dare l’ultimo colpo di coda, il più devastante.
In classe seconda quel giorno si imparano le maiuscole e Graziella ha appena completato una pagina intera di D… Un gesto che ancora oggi che di anni ne ha 77 ripete spesso col dito, tracciando sul tavolo tante immaginarie D maiuscole… «In quel momento, alle 11 e 14 – racconta – suonò il piccolo allarme, stavano arrivando gli aerei americani, dovevamo correre tutti giù nel rifugio sotto la scuola». Ma alle 11 e 24 gran parte dei 200 e più bambini è ancora sulla scale quando suona l’allarme grande, 35 aerei sono già lì e su quel cielo terso si stagliano grappoli di bombe in caduta libera. Ci vogliono 240 secondi dal momento dello sgancio perché tocchino terra: tanto dura il volo delle 350 bombe che si abbattono su Gorla e Precotto, e con maligna precisione una si infila nella tromba delle scale. La scuola esplode, il rifugio sprofonda, alunni e maestre precipitano.
«La mattina le lezioni finivano alle 11 e 30, quindi io e le mie amiche al suono dell’allarme siamo uscite per correre a casa in viale Monza – racconta Graziella Ghisalberti –, ma quando ho alzato gli occhi e ho visto tutte quelle bombe che cadevano sono tornata indietro verso la scuola per scappare nel rifugio. Già la notte ero terrorizzata dal Pippo (l’aereo che faceva incursioni nel buio, ndr), in quel momento morivo di paura, ma sulla porta della scuola la maestra dei maschi, Norma Gazzina, mi sbarrò la strada, io urlavo e lei non voleva farmi entrare, mi ha rimandata via…». Le bombe la sorprendono a metà strada, in via Fratelli Pozzi, dove la bimba si rifugia in un portone con la cartella in testa per proteggersi, poi, lacera e coperta di terra, tra file di case in macerie, arriva a casa. Non sa ancora che la sua scuola è stata colpita, non sa che sono quasi tutti morti, ma lei è l’unica ad essere tornata e attorno le si affollano le mamme del palazzo: «Dov’è la Bice? Hai visto l’Oscar?».
Nomi che ancora oggi le martellano in testa come un rimorso, la condanna dei sopravvissuti: «La mia “colpa” era di essermi salvata. Mi rimandarono in Brianza perché le altre mamme non potevano sopportare la mia voce quando chiamavo mamma». Una parola che suonava come una bestemmia, in quel quartiere. Dall’altro lato del naviglio, ancora oggi in via Tofane al numero 5 una lapide ricorda 22 bambini che vi abitavano, tutti morti nella scuola. «Anche la Luisa Rumi – racconta Graziella – dovette andare a Monza dai nonni, perché nella sua casa tutt’e quattro i bambini si erano salvati, mentre sua zia aveva perso due figli.
La maestra “cattiva” in realtà mi stava salvando la vita, lei invece è morta con gli altri. La mia “colpa” l’ho riscattata lottando tutta la vita perché i 184 Piccoli Martiri di Gorla non siano dimenticati».
È un destino strano e terribile quello che il 20 ottobre di 70 anni fa decise chi doveva vivere o morire. La quinta maschile si salvò perché era al piano terra e il maestro Modena fece scavalcare la finestra ai bambini. Per tutti gli altri o quasi vale la descrizione che don Ferdinando Frattino, giovane sacerdote ancora oggi amato nel quartiere perché subito scavò salvando alcuni bambini, scriverà in seguito: “Accorsi alla scuola. Le scale erano crollate insieme ai bambini che stavano scendendo. Gli alunni che erano arrivati prima al fondo li trovammo seduti come se dormissero…”.
Accorse anche la mamma di Edoardo e, alzati gli occhi ai ruderi fumanti, vide ai piani alti un corpo che penzolava appeso a un calorifero: era una bimba. «Nel rifugio saranno tutti salvi», urlava scavando con le unghie. Edoardo fu trovato dai vigili del fuoco soltanto il giorno dopo e mamma Angioletta se lo prese in braccio affrontando la Muti (il corpo militare della Repubblica Sociale), che non lasciava portar via i morti: «Lo portò a casa e con l’aceto si ostinava a farlo rinvenire».
Antonio Pannaccese, 8 anni, era un bimbo vivace e spesso bigiava, ma la mamma era stata chiara, «Mi te copi de bott se te bigiet ancamò», e proprio quel giorno le aveva obbedito. Gianni Smidili invece ha bigiato ed è stato risparmiato.
Ancora destino. La scuola Crispi faceva due turni, fino alle 11 e mezza i bambini delle famiglie un poco più agiate, poi entravano i bambini delle famiglie numerose perché almeno usufruissero della refezione: tutti morti i primi, tutti salvi i secondi… Dalle macerie solo in sei furono estratti vivi, «ma ancora oggi sono tutti scioccati – commenta Graziella –, nessuno di noi è più riuscito a scendere in una cantina…».
Tre minuti prima gli stessi bombardieri avevano centrato in pieno la scuola di Precotto, polverizzandola, ma tutti i bambini si salvarono. Tra loro Piera Nanetti, 6 anni, prima elementare: «Quel mattino non volevo andare perché il vento aveva spazzato il cielo e potevano bombardare, ma mia mamma mi ci portò. Ricordo i bombardieri, si sentiva dal rumore che erano pesanti di bombe… Le scaricarono su di noi, anche se sul tetto delle scuole era dipinta una grande croce». Per fortuna gli alunni di Precotto erano già in cortile a giocare, così scendere nel rifugio fu un attimo. «Eravamo là sotto quando esplose il mondo e noi restammo sepolti. Gridavo con la bocca piena di calcinacci. Per grazia di Dio don Carlo Porro individuò subito il punto più giusto dove scavare per estrarci, trovando l’uscita di sicurezza, altrimenti saremmo morti tutti perché poi il rifugio crollò».
Erano decollati alle 7.58 da Foggia gli aerei statunitensi e l’obiettivo era bombardare le fabbriche milanesi più attive, la Breda, l’Alfa Romeo e l’Isotta Fraschini. Ma tutto andò storto: la rotta risultò sbagliata e gli aerei si liberarono del carico per tornare a Foggia leggeri. I documenti militari statunitensi (rintracciati solo nel 1994 da Achille Rastelli) parlarono di missione fallita e di “danni collaterali”, poi tutto fu “dimenticato”.
Nessun presidente della Repubblica è mai venuto a Gorla, nessun testo scolastico parla della strage, «forse perché fu opera degli Alleati e non dei tedeschi…». Non hanno scordato, però, i familiari dei 184 Piccoli Martiri, che da settant’anni ogni 20 di ottobre si ritrovano a pregare nel punto in cui una volta sorgeva la Crispi. Oggi al suo posto un ossario ne conserva le spoglie, nella cripta incise in oro le parole di un Cristo dolente: «E vi avevo detto di amarvi come fratelli»