Guerriglieri di Allah: made in Usa?
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 63/14 del 25 giugno 2014, San Guglielmo
Irak: chi arma l’ISIS e perché gli Usa non interverranno
I commenti di questi giorni sull’avanzata travolgente degli estremisti sunniti dell’ISIS calati dalla Turchia e dal nord est della Siria fino a Mosul, la seconda città irakena con 2 milioni di abitanti, e fin quasi alle porte di Bagdad, non possono evitare ironie o addirittura sarcasmi. La guerra dell’Occidente per “portare la democrazia” in Irak dopo 10 anni (e 5000 morti e 100.000 feriti solo fra i soldati Usa, un milione la stima delle vittime civili) si sta risolvendo in una beffa: dove sventolava la bandiera dell’Irak di Saddam Hussein – non certo immacolata sebbene il raiss non avesse armi di distruzione di massa, né rapporti con Al-Qaeda, al contrario di quanto sostenevano G.W. Bush e Blair – sventola il drappo nero dei quaedisti sunniti dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante (o in Iraq e Siria) ovvero Islamic State of Iraq and Al-Sham, l’ISIS, insomma.
E’ una lettura di gran lunga troppo facile di quel che accade, e non da oggi, in quel settore del Medio Oriente dove le parti in gioco sono tante – Usa, Iran, Siria, Monarchie del Golfo in particolare Arabia Saudita e Qatar, Irak del governo sciita di al-Maliki e Irak dei combattenti sunniti – con interessi in parte in conflitto fra loro, come cerca di chiarire ai lettori una sorta di mappa sul NYTimes. Un coacervo di contraddizioni ben analizzato sulla Stampa da Claudio Gallo (“Nella guerra a distanza Arabia-Iran la Turchia gioca la carta dei curdi”).
Più drastici, i blog “alternativi” vanno oltre e non esitano a puntare il dito sul ruolo degli Stati Uniti. Ruolo peraltro ambiguo. Al punto che il governo Usa sembra molto riluttante a soddisfare la richiesta di aiuto da parte del filo-americano al-Maliki (che ha subito chiesto un intervento con aerei o droni) al quale si è clamorosamente unito l’Iran offrendo agli Usa collaborazione per respingere la minaccia sunnita. “Questa volta no”, ha dichiarato Hillary Clinton, potenziale candidata presidente nel 2016, contraria a ogni tipo di iniziativa. Il dibattito negli Usa è quanto mai aperto, specie dopo che l’Iran sciita ha proposto agli Usa una collaborazione contro i sunniti dell’ISIS.
Mr President: is the US still arming ISIL in Syria? Chiedeva provocatoriamente un tweet di @zerohedge venerdì scorso (13/6 ). Il giorno prima lo stesso blog postava un pezzo, senza punti interrogativi, intitolato Come gli Usa armano i due fronti del conflitto irakeno, ripreso da Infowars.
Armi all’Irak di Maliki. Il primo, sulla scia di una notizia Reuters, si dava conto del primo F-16, del contingente di ben 36 aerei ordinati dal governo irakeno di al-Maliki, 18 nel 2011 per $3 miliardi, altrettanti nel 2012. Per meglio proteggere l’Irak in marzo gli Usa hanno fornito all’Irak 100 missili Hellfire, e fucili d’assalto e munizioni, si aggiungeva. E in aprile avevano mandato altre armi, e 11 milioni di rotoli di munizioni e altre forniture.
“L’Irak è un grande paese con 3600 km di confini, e dobbiamo proteggerli”, dichiarava l’ambasciatore Usa, in procinto di priedere alla cerimonia di consegna alla Lockeed. Il paese non ha più un’aviazione dopo l ‘invasione del 2003 che rovesciò Saddam, dopo aver distrutto l’esercito del raiss, ora tocca ricostituirlo, fantastico – osservava il post.
E armi ai jihadisti combattenti sunniti. “Qualcuno mente. Obama dichiara di non armare i ‘ribelli ‘siriani, loro affermano il contrario”, titolava due settimane prima (28/5) lo stesso blog economico-finanziario ( ad influenzare Borse, valute, petrolio e materie prime e Borse come si sa sono le notizie più varie). Riferendosi da una parte alle affermazioni del presidente (stiamo pensando di addestrare e armare i ribelli siriani “moderati” che combattono cotro Assad, come fosse solo un’intenzione), dall’altro al servizio della tv pubblica PBS, Frontline dove ribelli volutamente non identificati ma apparentemente moderati al giornalista che li ha seguiti per vari giorni sul terreno asserivano di avere contatti con Americani che ordinavano loro di mandare contingenti di 80-90 militi in Turchia dove vengono addestrati all’uso di armi sofisticate e tecniche di combattimento.
Chi guadagna da questo duplice gioco? Sicuramente il complesso militar-industriale, conclude zerohedge, e qui si ferma.
“ Susan Rice ammette che gli Usa danno armi ad Al Qaeda in Siria” arrivava a titolare ad effetto Infowars il 7 giugno con video di YouTube incorporato in cui il consigliere n. 1 del presidente parla alla CNN. Dice di avere il “cuore spezzato” per le distruzioni in atto in Siria. “ E’ per questo che gli Stati Uniti hanno accresciuto il sostegno alle opposizioni moderate fornendo armi letali e non letali dove possiamo appoggiare sia l’opposizione civile sia quella militare”. Gruppi moderati spesso sotto finanziati, frammentati e caotici, sembrano servire a poco rispetto alle unità islamiste più radicali e organizzate, scriveva l’agenzia Reuters già un anno fa. E oggi? Nonostante le dichiarazioni di Rice l’amministrazione Usa è rimasta vaga, rifiutando di dare dettagli.
A chi finiscono le armi? L’autore del post ricorda di aver scritto già ad aprile che gli Stati Uniti fornivano armi ad al-Nusra ( fazione jihadista vicino ad al Qaeda) e altri gruppi terroristi in Siria attraverso gruppi moderati. “Se quelli che ci sostengono (Usa, Arabia Saudita, e Qatar) ci dicono di madare le armi a un altro gruppo le mandiamo. Un mese fa ci dissero di mandare molte armi a Yabroud, (una città siriana) e lo abbiamo fatto”, ha raccontato Jamal Marouf, che guida il Syrian Revolutionary Front (SRF) creato dalla CIA e intelligence di Arabia e Qatar.
Ora viene citato Barak Barfi, ricercatore della New America Foundation, a sua volta certo che al Nusra, uno dei gruppi jihadisti più feroci, riceve armi indirettamente dal SRF . “Si sa che il primo ministro turco Erdogan appoggia l’ al-Nusra Front e altri gruppi terroristi, ha scritto del resto lo scorso aprile il giornalista Premio Pulitzer Seymour Hersh, parlando degli appoggi da parte dei paesi vicini della Siria, specie la Turchia, alle milizie terroriste.
E al-Nusra Front un mese fa ha dichiarato che avrebbe obbedito all’ordine del leader di al-Quaeda Al-Zawahiri di fermare gli attacchi ai rivali dell’ISIS , raccontava a inizio maggio Asharq Al-Awsat , primo giornale panarabo, stampato in 4 continenti. Al-Nusra è una branca di al-Qaeda in Siria mentre l’ISIS è considerato l’ala irachena, viene specificato.
Ma chi c’è dietro l’ISIS che dice di guidare la ribellione dei sunniti contro le ingiustizie commesse dagli sciiti del dopo Saddam? Chi lo sostiene, chi lo arma, chi lo finanzia? Se lo chiede l’autore di un altro articolo dello stesso giornale, che si dice sorpreso di aver visto il suo capo Abu Bakr Al-Baghdadi addirittura sulla copertina di TIME alla fine dell’anno scorso.
Baghdadi – secondo un blog francese assai “cospirazionista” ma informato – comanderebbe la milizia per conto dei Saudiani (sunniti-wahabiti), sarebbe legato direttamente a un principe della famiglia reale fratello di un ministro, ma il gruppo sarebbe co-finanziato da americani, saudiani e anche francesi. Irakeno, Baghdadi nel 2013 se ne è partito a combattere in Siria, radicandosi nel nordest a Raqqa. Salvo dirigersi recentemente verso l’Irak , arrivando al distretto di Ninive, a Mosul e a Baliji, sede della maggiore raffineria irakena, oggi circondata dalle sue truppe.
Gli alleati segreti dell’ISIS. Senza nemmeno trovare troppa resistenza, racconta qui Global Research: a Mosul l’esercito irakeno – addestrato per 10 anni dagli americani (costo $20 miliardi)- non solo non è stato capace di fermare 2-3000 militi ISIS, ma i soldati hanno disertato in massa lasciando sul campo uniformi e armi per i guerriglieri, dove già militavano ex ufficiali e commilitoni dell’esercito di Saddam, sunniti come loro. E come gran parte della popolazione della regione, che infatti pare abbia applaudito la rotta dell’esercito di Al Maliki. (“Gli alleati segreti dell’ISIS”, titola un post del Daily Beast, raccontando cose simili).
Una campagna non da poco , quella di Mosul, pensata e preparata con cura e per tempo. L’ISIS del resto è un vero esercito ben organizzato e pagato, scrive un post di Land Destroyer/Infowars .
E mostra la foto di un lunghissimo convoglio di guerrieri con i loro vessilli neri a bordo di veicoli Toyota tutti uguali e nuovi, a quanto sembra. “Gli stessi usati dai miliziani che la Nato ammette di armare”, osserva l’autore. Che non crede alla “sorpresa” che i media americani raccontano.
Davvero la CIA non sapeva niente dell’avanzata di giugno? Vogliono far credere che l’intelligence sia stata colta di sorpresa, malgrado la sua presenza in Irak, e che l’ISIS sia un gruppo che si autofinanzia con furti alle banche e donazioni via twitter (sui giornali è uscito anche questo). La CIA ha da tre anni un programma di droni che sorveglia il confine fra Siria e Turchia. Poteva almeno leggere i giornali: il Lebanon Daily Start in marzo riferiva che il gruppo si era dislocato dalla Siria del nord verso est lungo il confine con l’Irak.
L’autore cita Seymour Hersh che già nel 2007 ( articolo The Redirection) documentava “l’intenzione di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, di creare e dispiegare una rete regionale di estremisti settari che avrebbero dovuto confrontarsi con Iran,Siria e Hezbollah in Libano. “L’armata ISIS è la manifestazione finale di questo disegno”, scrive. Accreditando la tesi complottista avanzata dall’autorevole giornalista.
L’ ISIS non è più da tempo una mera organizzazione terroristica. E’ una forza militare convenzionale che occupa un territorio e pretende di governarne una parte. La campagna di Mosul è stata bel pianificata e ha richiesto anni per metterne a punto le condizioni. Le operazioni hanno permesso di tagliar fuori i media dalla città, limitare le attività delle Forze di Sicurezza irachene, e guadagnarsi libertà di movimento all’interno. Un lavoro sul terreno per arrivare il 10 giugno alla presa di Mosul e del territorio, all’apprezzamento del suo attacco, all’aspirazione a governare uno stato tra Irak e Siria (non va dimenticato che l’ISIS controlla già l’area nel nord della Siria intorno a Deir el Dzor, ndr).
Così un report del 10 giugno dell’Institute for the Study of War, (istituto di ricerca indipendente, no partisan e no profit, specializzato in Medio Oriente). A citarlo è un post di Counterpunch online, mensile ormai storico di orientamento “radicale”, che non esita di criticare dem o rep. Il report – commenta il post – suggerisce che l’ISIS non è affatto quell’amalgama di fanatici rabbiosi che si vuol far credere, ma un esercito altamente motivato e disciplinato con chiari e definiti obiettivi politici e territoriali.
Come andrà a finire? Interessante la convergenza fra analisi assai diverse.
“Vi sono indicazioni crescenti che la crisi innescata dall’offensiva ISIS possa portare alla completa frattura dell’Iraq secondo linee settarie, cambiando la mappa politica del Medio Oriente”,
scrive Global Research. E Claudio Gallo sulla stampa.it:
“Paradossalmente, il crollo dell’Iraq ha riportato in voga le cartine apparse sul web all’indomani dell’Operazione Iraqi Freedom lanciata da George W. Bush nel 2003. Mostravano un paese diviso in tre stati: uno curdo al nord, uno sunnita al centro e uno sciita a sud. Più o meno la mappa attuale” .
Counterpunch è il più esplicito: “Se le cose stanno così allora è verosimile dopo che non marcerà su Bagdag, ma stringerà la sua presa sulle aree a predominanza di sunniti, costruendo uno stato nello stato. E questo è precisamente il motivo per cui l’ amministrazione Obama potrebbe scegliere di star fuori del tutto dalla conflagrazione, perché gli obiettivi dell ’ ISIS coincidono con un piano assai simile di creare una “ partizione soft ” che data dal 2006″
“Il piano fu proposto per la prima volta da Leslie Gelb, ex presidente del Council of Foreign Relations ( il suo articolo sul NYTimesrisale in realtà al 2003 ndr), e dal senatore Joe Biden (nel 2006). Secondo il New York Times “ il cosiddetto piano della ‘ partizione soft’ prevede di dividere l’ Irak in tre regioni semi-autonome. Ci sarebbe un Kurdistan arrendevole, un morbido Shiastan, e un altrettando soft Sunnistan , tutti sotto un grande, debole ombrello Irak”.
“Ed è per questo motivo che gli Stati Uniti probabilmente non dispiegheranno truppe da combattimento per confrontarsi coi miliziani sunniti a Mosul. E’ perché gli obiettivi strategici dell ’ amministrazione Obama e quelli dei terroristi sono quasi identici. Cosa che non dovrebbe sorprendere nessuno”, conclude Counterpunch.
Va sottolineato che il Sunnistan comprenderebbe una parte del territorio siriano, peraltro già sotto il controllo dell’ISIS. I siriani (e il presidente Assad) sarebbero d’accordo? E l’Iran sciita che oggi infatti offre collaborazione agli Stati Uniti?