L’orrore delle Foibe: ecco come la Chiesa cercò di opporsi
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 17/14 del 10 febbraio 2014, Santa Scolastica
Antonio Ballarin, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, ricorda le persecuzioni dei cattolici e l’opera della Chiesa contro i progetti di Tito
Il 10 febbraio sarà il Giorno del Ricordo dei Martiri delle Foibe, una pagina di storia tutta italiana ancora poco frequentata nei nostri libri di storia. Ancora meno conosciuto è il contributo che diedero molti uomini di Chiesa, anche a costo della loro vita, per denunciare gli abusi subiti dai tanti cattolici di quelle terre e per dare sostegno ai profughi giuliano-dalmati che continuarono a fuggire fino alla metà degli anni Sessanta. Antonio Ballarin, presidente dell’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), ce lo ricorda in questa intervista rilasciata ad Aleteia, nella quale ricostruisce anche il quadro di una popolazione profondamente radicata nella fede cattolica, e che per questo venne perseguitata.
In che modo la Chiesa cattolica fu presente in quei terribili anni?
Ballarin: Tutta la popolazione di quel territorio era cattolica da generazioni. La presenza della Chiesa era talmente connessa con quelle terre che era veramente un tutt’uno, era una presenza molto significativa. Al momento dell’occupazione di Tito, è successo il cataclisma. Fu l’invasione di un’armata composta da persone che non erano autoctone, ma venivano da fuori, erano contro i nazi-fascisti ed avevano identificato l’italiano come fascista, come l’elemento da eliminare. Ma l’aspetto peggiore era che il comunismo – e questo ce lo insegna la storia, ma noi lo sapevamo da sempre – ha delle forti connotazioni nazionalistiche: i comunisti di Tito erano i nazionalisti slavi che dovevano estirpare completamente il tessuto sociale di quelle città e di quelle campagne. Il dramma del nostro popolo si comprende bene guardando dopo la guerra, non durante, perché le persone che sono venute via da quella terra e che hanno subìto la presenza comunista lì dentro sono l’esempio di come il comunismo cercasse di ricostruire una storiografia. Lo Stato Jugoslavo, che era neonato, aveva bisogno di costruirsi la propria storia, e quindi oltre che appropriarsi della cultura di quei posti, aveva bisogno di radere al suolo l’identità di una nazione. Per fare questo ovviamente dovevano cancellare l’identità che era legata fortemente alla Chiesa cattolica.
In che modo furono perseguitati i cattolici della Dalmazia e della Venezia Giulia?
Ballarin: Sono nato da una famiglia di profughi, qui al villaggio giuliano-dalmata di Roma. Mia madre è venuta via nel ’54, perché non l’hanno lasciata partire prima. Ad altri della sua famiglia, tra cui un fratello, non fu data la possibilità di andarsene. Noi siamo andati a trovarli molte volte quando furono riaperte le frontiere, negli anni Sessanta e Settanta: abbiamo vissuto lì, avevamo quasi sempre la polizia in casa, abbiamo potuto conoscere l’evoluzione di quella società al di là dell’Adriatico che nessuno conosceva. Parlare l’italiano ed andare in chiesa erano considerati peccati gravissimi, per i quali potevi essere fermato, arrestato, incriminato. Io ho avuto una cugina, e sto parlando degli anni Settanta, che insegnava a scuola e che è stata seguita fino in chiesa: il giorno dopo a scuola le fu detto “se ti vediamo andare in chiesa perdi il lavoro”. Oppure c’è la storia di mio zio, che il giorno della festività di S. Giuseppe non andò al lavoro per recarsi in chiesa, e arrivarono i poliziotti con la stella rosa a prelevarlo sull’altare, mentre serviva messa. Questo era l’atteggiamento del comunismo: di persecuzione verso la Chiesa e anche verso l’identità italiana che doveva essere espunta.
Quali furono i momenti peggiori?
Ballarin: Le due grandi ondate di infoibamenti, la prima del 1943, la successiva del 1945 ed oltre, che colpirono l’Istria con il sopraggiungere delle bande partigiane di Tito, investirono non soltanto coloro che potevano essersi compromessi con il passato regime fascista, ma anche un numero assai considerevole di semplici cittadini estranei e incolpevoli, ragazze e donne incinte, appartenenti alle forze dell’ordine, maestri, bidelli, segretari e messi comunali, postini, qualunque figura rappresentativa di quella che era stata l’Amministrazione statale italiana. Le persecuzioni, le deportazioni e le uccisioni assunsero subito una forte valenza ideologica ed etno-centrica, alimentata dal rivendicazionismo jugoslavo di quei territori già italiani. Scopo degli eccidi comunisti era questo, di privare la popolazione italiana autoctona dei suoi dirigenti e guide, dai più autorevoli ai più umili, sino ai parroci, in questo caso in una chiave evidentemente anti-religiosa. In quattro anni furono uccisi ben trentanove sacerdoti cattolici, di cui trentasei italiani nativi di quei luoghi, anche dopo orrende sevizie. E diversi croati.
Ci può fare alcuni nomi?
Ballarin: Simbolo religioso dell’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia è don Francesco Bonifacio, giovane parroco ucciso nei pressi di Grisignana in Istria dalle bande «titine» nel 1946, dunque a guerra ampiamente terminata. Dalle testimonianze acquisite, venne seguito e sorpreso da alcune guardie della milizia jugoslava nella stessa Villa Gardossi, spogliato, deriso, colpito a calci e a pugni e da una grande pietra che gli venne scagliata sul volto, quindi scaraventato nell’inghiottitoio di Martines. Altro emblema religioso dell’esodo è certamente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, catturato, sempre di notte, dai partigiani jugoslavi nella sua casa di Gallignana (paese della Valle dell’Arsa), insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso la località di Lindaro, dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Gli posero sul capo una corona di filo spinato, lo evirarono e lo scaraventarono in una cava di bauxite a Villa Surani (Lindaro). Tra i sacerdoti trucidati ricordiamo inoltre don Giovanni Manzoni, ucciso in Dalmazia nell’ottobre 1944, don Domenico Benussi, trucidato ad Albona nei primi giorni di maggio 1945, Erminio Pavinci, ucciso a Chersano, nei pressi di Fianona, nel gennaio 1945, Gino Vosilla e Giovanni Massalin, scomparsi a Fiume nel 1945, padre Simone Nardin sparito ad Abbazia (Fiume) nell’aprile 1945, don Giacomo (Guido) Minghetti, deportato nel lager titino di Borovnica nel giugno 1947, ed altri ancora: meriteranno, come don Bonifacio, una memoria storica e un posto nel martirologio cristiano.
I sacerdoti perseguitati e uccisi furono solo italiani?
Ballarin: No. Tra le loro fila vi sono anche uomini di Chiesa croati, come il giovane don Miro Bulesic, della diocesi di Parenzo-Pola, sgozzato nel 1947 dai «titini» e beatificato a Pola nel settembre 2013. Ordinato sacerdote nel 1943, il 24 agosto 1947 fu ucciso a Lanischie da un manipolo di miliziani armati. Così mons. Amato lo ricordò nel corso della cerimonia di beatificazione: «Nell’inferno di questo caos i facinorosi si sfogarono contro don Miro, bastonandolo selvaggiamente e spintonandolo con violenza contro il muro. Il giovane sacerdote insanguinato e sfigurato ripeté più volte l’invocazione: ‘Gesù, accogli la mia anima’». Vanno sempre ricordati naturalmente i vescovi che accompagnarono i profughi giuliani e dalmati nel loro esilio in Patria. Come mons. Antonio Santin, Vescovo di Fiume e poi di Trieste e Capodistria, dal 1938 al 1975. Figura di grandissimo spessore, si rese protagonista di una straordinaria opera di mediazione con le autorità tedesche quando queste occuparono Trieste, nel disfacimento delle strutture statali italiane dopo l’8 settembre 1943, e diventando punto di riferimento essenziale della comunità religiosa e della società civile. Quando, nel giugno 1947 mons. Santin comunicò alle autorità jugoslave che si sarebbe recato a Capodistria, di cui era formalmente Vescovo, per partecipare alla festa di San Nazario, patrono della città e per amministrare il sacramento della Cresima, i titini ebbero modo di organizzare una feroce aggressione nei suoi confronti. Da pastore esercitò la sua funzione con grande equilibrio, assumendo le difese dei diritti delle popolazioni slave inficiati dal regime fascista e degli italiani dell’Istria quando l’intera regione Giulia fu invasa dalle formazioni di Tito. Tra i “nostri” Vescovi va ricordato anche mons. Ugo Camozzo, l’ultimo Vescovo di Fiume italiana e nel dopoguerra di Pisa, che nella sua pastorale pronunciata nel Duomo di San Vito così incoraggiò i suoi fedeli: «Fiumani, siate dignitosi nella vostra sventura. La vostra umiliazione è gloriosa, potete portarla a fronte alta e con nobile fierezza».
Molti uomini di Chiesa si adoperarono anche in un’opera di denuncia?
Ballarin: Si è fatto quello che si poteva fare, valga per tutti la storia di monsignor Santin. Ci fu un grande sforzo di denuncia, ma erano denunce a cui non venne prestato particolarmente orecchio. Ricordiamo che l’esodo dei profughi che comincia nel ’43 finisce non alla metà degli anni ’50, come si pensa in genere, ma alla prima metà degli anni ’60. Noi non abbiamo avuto strutture di supporto della Croce Rossa internazionale. Quando le persone andavano via, le strutture primarie in cui queste trovavano assistenza morale e fisica erano le parrocchie. Le persone che finivano nei campi profughi cercavano continuamente un contatto con esponenti della Chiesa cattolica. Ricordiamo che di preti ne hanno infoibati una quarantina, in Istria. Quindi, l’aiuto primario della Chiesa Cattolica è stato quello di dare assistenza alle persone, fisicamente di trovare la strada migliore per farle andare via da dove stavano. Questa era una cosa che i comunisti sapevano molto bene, e quindi hanno cercato anche in questo caso di troncare queste relazioni.