2024 Comunicati  17 / 12 / 2024

Editoriale di “Opportune Importune” n. 46

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 95/24 del 17 dicembre 2024, San Lazzaro

Editoriale di “Opportune Importune” n. 46

E’ scaricabile “Opportune Importune” n. 46 (Natale 2024).  Segnaliamo in particolare l’editoriale di don Ugo Carandino.

Cinquantacinque anni fa, a partire dalla prima domenica d’Avvento del 1969, Paolo VI impose in tutte le chiese un nuovo rito della Messa. Già da qualche anno il precedente messale di san Pio V era stato impoverito e bistrattato, abituando sacerdoti e fedeli ad alcuni cambiamenti: ora veniva abrogato, sostituto da un nuovo messale che codificava un nuovo rito, espressione delle nuove dottrine.

Si trattò di un terremoto all’interno della Chiesa, devastante come ogni terremoto. Molti sacerdoti, con le lacrime agli occhi, abbandonarono il rito che aveva accompagnato la vita della Chiesa per molti secoli e tutta la loro vita fino a quel momento. Molti fedeli, già infastiditi per le ripetute riforme degli ultimi anni (Giovannino Guareschi, morto nel 1968, si scagliò in più occasioni contro queste riforme), smisero ben presto di frequentare le chiese, disgustati e amareggiati. Molti altri, purtroppo la maggioranza, seguirono la corrente tra un misto di stupore e di rassegnazione, oppure, accolsero con entusiasmo il nuovo “libro delle preghiere comuni”, per dirla all’anglicana; erano ormai predisposti dalla predicazione e dalla pastorale della nuova generazione di preti imbevuti dello “spirito del Concilio”, figli della “nouvelle théologie”, ad accettare la nuova messa.

Ho insistito volutamente sull’aggettivo “nuovo”: una nuova teologia, un nuovo sacerdozio, una nuova messa, dei nuovi fedeli per arrivare a una nuova religione. La tattica usata, invece, è molto vecchia, poiché è da secoli che gli innovatori utilizzano i cambiamenti liturgici per ottenere il cambiamento della fede. Lo stesso modernismo, essenza della nuova religione, è il coagulo di vecchie e decrepite eresie. Di innovativo c’è solo la tattica, purtroppo vincente: distruggere la Chiesa dall’interno di essa, invece di lasciarla, per così dire, sbattendo le porte come fecero i capi dei movimenti ereticali nei secoli precedenti. Si può quasi rimpiangere la coerenza di Lutero e di Calvino rispetto ai modernisti loro simili: questi agirono subdolamente all’interno della Chiesa nonostante le condanne di san Pio X, sino alla morte di Pio XII, per poi imporsi apertamente col Concilio e nei decenni successivi. Non esiste giuridicamente una “chiesa conciliare” o una “neo-chiesa modernista”, per il semplice fatto che i nuovi eretici non l’hanno fondata, preferendo rimanere all’ombra della Chiesa cattolica per imporre i loro cambiamenti, e cambiando il senso dei dogmi cattolici.

Una tappa indispensabile per sovvertire profondamente la Chiesa fu dunque adottare un nuovo messale, coronamento della rivoluzione liturgica (e poiché la rivoluzione è sempre in marcia, il messale di Paolo VI continua ad avere aggiornamenti e revisioni, la riforma della riforma, per la gioia degli editori). Oltre alle categorie di persone già citate che ebbero reazioni diverse a partire dall’Avvento del 1969, vi fu anche quella che ci interessa di più: la piccola minoranza di sacerdoti e laici che rimasero fedeli alla Messa tradizionale. Con tristezza sottolineo come queste persone nel passato furono l’oggetto della rabbia, delle vessazioni e dell’isolamento (nelle diocesi, nei conventi e nelle famiglie, a seconda dei casi) da parte degli innovatori modernisti, mentre attualmente sono dimenticati o ignorati da parte di coloro che pur godono i frutti della loro buona battaglia. Per cui dopo cinquantacinque anni di messa nuova, nel campo modernista è andata perduta la fede cattolica; mentre nel campo “tradizionalista” sarebbe auspicabile una certa riconoscenza per quei “pioneri” che tennero alta la bandiera della Messa tridentina.

Questa amnesia collettiva è dovuta anche al fatto che, in molti casi, si pensa che la salvaguardia della Messa sia opera di Benedetto XVI (il teologo Joseph Ratzinger, in giacca e cravatta al Concilio, poi non più cravattato ma sempre modernista come oratore nel famoso discorso alla Curia del 2005) col celebre motu proprio “Summorum Pontificum” del luglio 2007.

Eppure il documento ratzingeriano è la conseguenza del fatto che nei trent’otto anni precedenti ad esso non si è rimasti passivi davanti alla distruzione della Messa, del culto eucaristico, del sacerdozio, del decoro delle chiese, della devozione dei fedeli; ma tra incredibili difficoltà, è stata possibile la salvaguardia della Messa grazie a quella piccola parte di sacerdoti e laici che non hanno perso la fede al seguito dei tantissimi Ratzinger che occupavano l’intera struttura della Chiesa. Tutti sodali nella Babele conciliare, anche se divisi tra progressisti e conservatori, ma tutti estranei all’amore per la Messa (per esempio a Bologna fu proprio il “conservatore” Giacomo Biffi a mettere fine alle celebrazioni della Messa nella basilica di san Domenico, anche se erano celebrate con l’indulto del 1984).

Se tutti avessero seguito Montini, Luciani, Woityla e Ratzinger, 38 anni dopo l’imposizione della nuova messa non ci sarebbe stato bisogno del tanto decantato motu proprio. Invece nel 2007 la Messa continuava ad essere celebrata dagli eredi (alcuni coerenti altri meno o molto meno) dei ‘refrattari’ della prima ora. È da notare inoltre che il rifiuto del bi-ritualismo contraddistingueva sia i cattolici non in comunione con gli occupanti della Sede di Pietro, sia i lefebvriani e (almeno nella pratica) i riconciliati dell’Ecclesia Dei; questi ultimi entrambi rigorosamente una cum.

Col documento di Benedetto XVI avvenne la ‘mutazione genetica’ del “tradizionalismo”. Non più sacerdoti e laici che, contrari agli errori del Concilio, non accettano la nuova Messa, ma dei sacerdoti (e laici) che proprio perché avevano già accettato il Concilio e la riforma dei sacramenti (che porta con sé delle conseguenze per la validità del nuovi riti di consacrazione episcopale e di ordinazione sacerdotale), più o meno timidamente ambivano, tra una messa e l’altra celebrate sul tavolo col nuovo rito e il nuovo calendario, utilizzare anche il messale di san Pio V, con una coreografia forse maestosa ma ben poco convincente dal punto di vista della difesa della Fede.

Il motu proprio luccicò non come l’oro ma come la luce dell’angelo decaduto: ciò che sembrava un passo a favore del ritorno della Messa, in realtà in molti casi rappresentò il suo definitivo seppellimento, poiché chi si riconosceva nel documento di Ratzinger (il quale dal 1969 non ha mai più celebrato con il vecchio messale…) doveva riconoscere la legittimità, la validità e la superiorità della messa nuova, che si pretendeva imporre come la norma liturgica ordinaria della Chiesa. E il vecchio messale? Il teologo bavarese, protagonista della “nouvelle théologie”, ebbe l’ardire di definirlo come un testo liturgico ‘straordinario’, quindi secondario e marginale rispetto al messale montiniano, lasciato alla sensibilità soggettiva (il sentimento religioso che caratterizza il ‘credente’ modernista) di chi, in talune circostanze, lo preferisce. Insomma, una specie di condominio tridentino tollerato nella città modernista, dove però il conseguimento della cittadinanza (con relativi diritti allo stipendio e alla pensione) è subordinato all’accettazione del concilio e della riforma.

Il motu proprio di Benedetto XVI è stato scavalcato dai documenti successivi di Jorge Mario Bergoglio relativi all’utilizzo del vecchio messale. Non vi è però unicamente il motu proprio “Traditionis custodes” del 2021, nel quale emerge l’avversione radicale nei confronti della Messa Romana e lo spudorato disprezzo della multisecolare Tradizione della Chiesa; vi sono anche una serie di normative a favore della Fraternità San Pio X (‘giurisdizione’ per le confessioni, le nozze, le ordinazioni, ecc.) che stupiscono solo in parte, e che hanno reso quella società una delle più ostinate nel riconoscimento della legittimità del proprio benefattore. Sembrerebbe che per Bergoglio chi è ‘dentro’ l’organizzazione ufficiale della Chiesa non deve sperare di mettere piede nel citato condominio tridentino, spazio riservato invece a chi è in “comunione imperfetta” (in attesa delle prossime consacrazioni episcopali).

Per concludere, oggi come cinquantacinque anni fa, non si può dissociare la battaglia dottrinale da quella della Messa. Poiché la parentesi ratzingeriana ha indebolito, confuso e ‘contaminato’ l’ambiente tradizionalista, è necessario ritornare alle motivazioni serie e oggettive, di natura teologica, contenute nel “Breve esame critico del Novus ordo Missæ”, composto a Roma nell’aprile del 1969, qualche mese prima della ‘promulgazione’ del nuovo rito. In esso si affermava: “È evidente che il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento. A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno.  Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.” Optare significa operare una scelta fra due possibilità, in questo caso tra due messali espressione di due teologie: non ci può essere posto per una visione ecumenica, che ha come conseguenza l’accettazione del bi-ritualismo.

Sarebbe molto bello avere qualche foto del gruppo che in modo quasi catacombale nella stessa Città Eterna mosse i primi e decisivi passi per conservare la Messa Romana. Il teologo domenicano padre Guérard des Lauriers fu tra questi, ed ebbe l’onere e l’onore di comporre in massima parte il testo che ebbe in seguito l’approvazione del card. Ottaviani e del card. Bacci, che lo presentarono a Paolo VI scrivendo “Il N.O.M. rappresenta, sia nel suo insieme come nei dettagli, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa”. Montini ne fu profondamento turbato e dovette modificare il documento di presentazione del nuovo messale (ma non il messale stesso). La cricca modernista, novella Erodiade, ebbe la testa di padre Guérard, che fu allontanato dalla Lateranense, l’università papale, dove ricopriva una cattedra di teologia dogmatica. Caddero in disgrazia anche il Rettore della Lateranese, mons. Antonio Piolanti che aveva voluto nel corpo docente il padre Guérard, e altri sacerdoti legati al B.E.C, come mons. Renato Pozzi e mons. Domenico Celada. L’ispiratrice del cenacolo romano fu la controversa ma in quel frangente provvidenziale Cristina Campo; anche altre figure femminili si distinsero nella difesa generosa della Messa in quegli anni decisivi e negli anni immediatamente successivi, e alcune di esse divennero convinte sostenitrici del nostro Istituto.

Mentre in paesi come la Francia, gli Stati Uniti d’America e il Messico, l’adesione del clero alla battaglia per la Messa fu notevole, nella nostra Penisola fu meno consistente, anche se in alcune città come Roma e Torino la Messa fu sempre celebrata. Tra l’altro il calendario di Sodalitium del 2019 ha ricordato i nomi dei sacerdoti, degni servitori di Gesù Sommo ed Eterno Sacerdote, che conservarono il rito di san Pio V.

In questo 55° anniversario ricordiamo nelle nostre preghiere le anime di questi sacerdoti e fedeli che ad un certo punto della loro vita si trovarono nella “tragica opzione” e che scelsero di seguire Gesù Crocifisso sino al Calvario. Non dimentichiamo neppure anche i tanti responsabili delle catastrofi dottrinali e liturgiche iniziate in quegli anni, le cui conseguenze sono sempre più devastanti. L’aureola appiccicata sulla testa di alcuni di quei protagonisti rende la vicenda, come direbbe qualcuno, grave ma non seria. Le aureole autentiche le hanno meritate o ammirate le moltitudini di generazioni che si sono santificate col Santo Sacrificio della Messa, inginocchiate davanti agli altari ed ai tabernacoli, in adorazione davanti al SS. Sacramento, come il santo Curato d’Ars e tanti altri.

L’auspicio è che questo anniversario possa risvegliare in tutti un maggiore desiderio e una più viva devozione alla Santa Messa, la cui celebrazione non è un atto scontato, ma implica tanti sacrifici che non tutti colgono. I ‘vecchi’ fedeli sappiano dare l’esempio (anche nell’abbigliamento), e le ‘nuove leve’ sappiano conformarsi, sbarazzandosi delle cattive abitudini assimilate nelle parrocchie.

Spero che queste considerazioni siano pubblicate prima del Natale: auguro a tutti un tempo natalizio vicino all’altare e vicino al presepe, e di ottenere, anche con l’intercessione di san Pio V e san Pio X, patroni della nostra “buona battaglia”, le grazie necessarie per vivere e crescere nella grazia di Dio.

don Ugo Carandino

Fonte: https://www.sodalitium.biz/wp-content/uploads/2024/12/opportune46.pdf