Dopo 2000 anni scomparirà la presenza cristiana a Gaza?
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 84/24 del 12 novembre 2024, San Renato
Dopo 2000 anni scomparirà la presenza cristiana a Gaza?
La sceneggiata di Tel Aviv relativa ai fatti di Amsterdam ( https://www.piccolenote.it/mondo/gli-scontri-di-amsterdam ) ha contribuito a distogliere l’attenzione dei media italiani dalla recrudescenza degli attacchi israeliani a Gaza, accompagnati dall’intensificarsi dell’aggressione al Libano e dai pogrom in Cisgiordania. L’intervista che segnaliamo è un campanello d’allarme per la sorte dei mille cristiani (un centinaio della parrocchia latina, gli altri della parrocchia dei greci scismatici) di Gaza City, che all’inizio della guerra non sono caduti nella trappola di lasciare il Nord con l’illusione di trovare una situazione migliore nel Sud.
La loro determinazione è stata messa a dura prova dal bombardamento dell’edificio greco, con 18 vittime tra cui diversi bambini, dall’uccisione di tre donne della chiesa latina da parte dei cecchini e dai diversi anziani e malati morti per mancanza di una adeguata assistenza medica. Nel corso dell’anno di guerra le due comunità, come tutti gli altri palestinesi, hanno patito la mancanza di acqua, cibo, medicine, carburante.
Attualmente la fame e il pericolo di epidemie stanno minacciando la sopravvivenza dei superstiti e Tel Aviv sembra voler accelerare la cancellazione della popolazione nel Nord della Striscia, come è spiegato nell’intervista che segnaliamo.
La bimillenaria comunità cristiana di Gaza, sopravvissuta nei secoli alle invasioni e persecuzioni dei persiani, degli arabi e dei turchi, sembra ora soccombere davanti al sionismo. Se nei secoli passati l’Occidente cristiano difendeva i diritti dei cristiani della Terra Santa, l’attuale Occidente apostata (come del resto l’Oriente scismatico) non fa nulla per fermare l’avanzata del sionismo, da sempre anticristiano, non solo nella sua attuale matrice messianica.
La riflessione del docente dell’Università di Tel Aviv sul Generals Plan, progetto di assedio ed evacuazione forzata dalla nord della Striscia messo a punto da Israele che crea apprensione anche per il destino della comunità cristiana che è rifugiata nella parrocchia della Sacra Famiglia.
Mentre l’attenzione mediatica era tutta centrata sul Libano e sul confronto con l’Iran, negli ultimi giorni l’esercito israeliano, ha ripreso a bombardare massicciamente il Nord della Striscia di Gaza, causando anche molte vittime civili. Una grave situazione che suscita apprensione anche per la sorte della comunità cristiana rifugiata nella parrocchia della Sacra Famiglia, che si trova a pochi chilometri ormai dall’avanzata delle truppe israeliane. Alcuni osservatori ritengono che si tratti dell’avvio del Generals’ Plan, un piano di assedio ed evacuazione forzata dal nord della Striscia, proposto nelle sue linee generali dall’ex generale israeliano Giora Eiland, in un’intervista al «The Times of Israel» fin dallo scorso aprile. Il piano è stato comunicato alla commissione esteri e difesa del parlamento dal premier, Benjamin Netanyahu, lo scorso settembre. In merito, «L’Osservatore Romano» ha interpellato il professor Idan Landau, dell’Università di Tel Aviv, che ha attentamente studiato e scritto della questione su alcune riviste israeliane.
Professor Landau può spiegarci brevemente cosa s’intende per Generals’Plan?
Il Generals’ Plan è stato reso noto lo scorso settembre. Il suo obiettivo è di svuotare della sua popolazione il Nord della Striscia di Gaza, cioè circa un terzo del totale della Striscia, circa 300.000 abitanti. Durante una prima fase l’esercito israeliano informerebbe tutta questa gente che gli è concessa una settimana di tempo per evacuare verso Sud attraverso due corridoi umanitari. In una seconda fase, al termine della settimana, l’intera area verrebbe dichiarata “area militare chiusa”. Chi vi rimanesse sarebbe considerato un nemico combattente, ed ucciso se non si arrende. Un assedio totale verrebbe poi imposto all’intero territorio, intensificando, con l’isolamento, la crisi alimentare e sanitaria.
Professore, il piano proposto dal generale Eiland, era stato presentato al governo lo scorso aprile, e non integralmente approvato. Perché lei ritiene che ora sia in fase di realizzazione? Quali operazioni militari in corso lo proverebbero?
La mia impressione è che, malgrado le smentite ufficiali, i militari israeliani stiano implementandone una versione non lontana da quella originaria. E gli stessi soldati sul campo lo confermano ai giornalisti. Molti civili sono stati uccisi negli ultimi giorni, e anche l’assedio al Nord della Striscia è in corso. Dozzine di testimoni dalle città di Jabalia, Beit Hanoun, e Beit Lahia, riferiscono di livelli di distruzione senza precedenti, abbattimento di interi quartieri, attacchi anche ai rifugi per stanare chi vi cerca protezione. I massacri sono quotidiani: il 29 ottobre l’aviazione israeliana ha bombardato massicciamente edifici densamente popolati a Beit Lahia uccidendo 250 persone (metà delle quali sono ancora sotto le macerie). Non penso perciò che ci siano dubbi sul fatto che il piano sia diventato operativo. Parallelamente alle distruzioni, l’Idf sta spingendo gli sfollati verso il Sud. Anche se molti resistono a voler rimanere nell’enclave, e a non attraversare il corridoio di Netzarim, perché temono di non poter mai più tornare indietro.
Quante sono le persone riguardate dal piano di evacuazione forzata?
Prima del 5 ottobre 2024 — che è la data stimata di inizio dell’operazione — vivevano nell’enclave tra le 300 e le 400.000 persone. Ora ne sono rimaste circa 100.000. Ma l’Idf è determinata a non lasciarne nessuna. È abbastanza evidente che tutto ciò non c’entra con la dichiarata intenzione di catturare i residui capi di Hamas e distruggere le loro basi; ma il diritto umanitario internazionale non permette questo tipo di operazioni militari.
Il piano prevederebbe, oltre alla pressione militare, anche la sospensione dei rifornimenti di cibo, combustibile, energia ed acqua. Anche questo sarebbe in conflitto col diritto umanitario internazionale?
Mi lasci dire che obietto il suo uso del verbo condizionale. Non “prevederebbe” ma “prevede”; non “sarebbe” ma “è”. Da un mese ormai nell’enclave del Nord di Gaza non entrano cibo ed acqua, con l’eccezione di limitati rifornimenti per l’ospedale Kamal Adwan. Tutte le agenzie delle Nazioni Unite e gli organismi umanitari ogni giorno denunciano che la situazione umanitaria è ormai catastrofica. Io credo che non ci possano essere dubbi sui caratteri di questa operazione rispetto al diritto umanitario internazionale, e questo è il motivo per cui il governo israeliano tende a sottacerne la portata reale.
Fino ad oggi il governo israeliano non ha espresso una posizione chiara e definitiva circa gli assetti futuri di Gaza. Lei pensa che questa operazione precostituisca un ordinamento futuro almeno per il Nord della Striscia?
Sì. Io penso che l’obiettivo finale sia il re-insediamento dei coloni. Un ritorno dopo l’allontanamento disposto nel 2005 dall’allora premier Sharon. L’estrema destra della coalizione che sostiene il governo Netanyahu non ne fa mistero. A cominciare dal ministro del Tesoro Smotrich. Ovviamente si tratta di un progetto che verrà realizzato a tappe. Attraverso la permanenza dei militari all’interno del perimetro della Striscia e delle cosiddette fasce “di sicurezza”. Quindi inizieranno piccoli insediamenti giustificati come bisogno di controllo militare del territorio, che poi cresceranno fino a diventare grandi comunità come quelle esistenti in Cisgiordania. Non penso però che questa soluzione di reinsediamento di coloni possa mai funzionare anche a sud del corridoio di Netzarim, perché due milioni di palestinesi, stipati in quel ghetto a cielo aperto, non possono andare altrove. E col tempo finiranno col costituire una bomba a tempo di povertà, malattie, e anche di un pericoloso e montante estremismo.