Capodistria, 1947: l’aggressione a mons. Santin
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 14/24 del 9 febbraio 2024, San Cirillo d’Alessandria
Capodistria, 1947: l’aggressione a mons. Santin
Mons. Antonio Santin (1895 – 1981) fu vescovo di Trieste e Capodistria nel periodo dell’occupazione titina della sua diocesi. Il 19 giugno 1947 non volle sopprimere la tradizionale visita a Capodistria per la festa patronale di San Nazario, nel corso della quale fu aggredito e rischiò di essere ucciso. Fu sempre vicino alle popolazioni costrette all’esodo e compose una toccante preghiera per i tutti i suoi fedeli uccisi nelle foibe.
L’aggressione a mons. Santin (giugno 1947)
Nel gennaio del 1947 mons. Santin scrisse all’on. De Gasperi per sollecitare aiuti a favore delle popolazioni in stato di bisogno. In seguito, si verificò un fatto particolarmente doloroso. Dopo l’emanazione di una “proibizione” nei suoi confronti da parte delle autorità jugoslave con conseguente impedimento anche con mezzi violenti di eventuali visite pastorali (1946), mons. Santin venne aggredito, insultato, malmenato, ferito a Capodistria (19 giugno 1947) mentre si apprestava ad amministrare la Cresima. Fu costretto a riparare a Trieste protetto da una scorta armata. Si riporta qui di seguito la sua testimonianza.“(…) Mi trovarono, mi insultarono, gridando che dovevo andarmene. E mi trascinarono violentemente giù per le scale (del seminario) percuotendomi con pugni e con legni, sulla testa. Arrivai in cortile perdendo mozzetta, rocchetto, croce e scarpe. Ero tutto insanguinato. Mi spinsero e trascinarono, mentre sui muri esterni del cortile la gente arrampicata urlava improperi, e così arrivai nel refettorio davanti alla cucina. Colà vi era altra folla che si dimenava e gridava. Seppi poi che la gente capodistriana aveva cercato invano la polizia ed era stata bloccata fuori del Seminario mentre tentava di portare soccorso. Ma secondo un piano prestabilito la polizia – per scansare le responsabilità – doveva intervenire a tempo opportuno, consumato il misfatto. E così intervenne.Proprio allora un energumeno entrato in cucina aveva preso dal tavolo un gran coltello con cui le suore tagliavano la carne. E stava uscendo brandendolo, quando la polizia, giunta finalmente, si collocò fra me e la folla urlante. E così fui salvo. Nel refettorio venne qualcuno ad asciugarmi il sangue e poi mi portarono nella parte più riposta, sopra la chiesa-cappella. Era l’infermeria. Venne il medico dott. Paruta, che mi medicò. Era furibondo e io dovetti calmarlo. Mi feci portare la comunione. E rimasi lì ad attendere.
Dopo qualche tempo ritornò la Rosa [una partigiana, ndr] Mi disse: “Ora verranno alcuni a offrirle di portarla a Trieste con una barca, che hanno preparato in marina a Bossedraga. Non accetti, per amor di Dio. Intendono gettarla in mare in mezzo al golfo con una pietra al collo. Lei sa che sono a giorno di tutto”. Difatti vennero alcuni dell’autorità a scusarsi. Non sapevano che io sarei venuto a Capodistria (ed erano ad attendermi sulla strada di Trieste). Se li avessi avvertiti, avrebbero impedito quanto era avvenuto. Risposi che io avevo informato regolarmente le autorità. E soggiunsero che era pronta una barca per portarmi a Trieste. Insistettero nell’offrire questo loro servizio. Ma io rifiutai decisamente. E mi lasciarono in pace.
Più tardi ritornarono alcuni dicendomi che era pronto un camion per portarmi a Trieste. Intanto la notizia era arrivata a Trieste al Governo Militare Alleato. Accettai. L’automezzo scoperto aveva in mezzo un banco sul quale ci sedemmo io e padre Porta, che venne con me. Attorno nello stesso vi erano in piedi soldati armati, che ci circondavano. Sembravamo due condotti a morte. Avevano disposto gruppi di loro compagni con le mani piene di sassi. E mentre si passava tiravano le pietre che colpirono i soldati, perché noi eravamo in mezzo. Così siamo arrivati ad Albaro Vescovà, ove si trovava il posto di blocco che separava la zona occupata dagli jugoslavi da Trieste. Qui ci vennero incontro polizia e soldati del G.M.A. [Governo Militare Alleato] che mi presero in consegna e con un’automobile mi portarono a casa”.