La storia di un carnefice con la pistola sul comodino
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 13/24 dell’8 febbraio 2024, San Giovanni di Matha
La storia di un carnefice con la pistola sul comodino
Pubblichiamo un articolo a nostro giudizio molto interessante sulla vita di Josip Broz, detto Tito, uno dei maggiori criminali del secolo scorso. Di particolare interesse la cinica benevolenza di Churchill nei suoi confronti e i legami coi servizi segreti di diversi paesi. All’inizio dell’articolo l’autore esprime dei giudizi molto severi nei confronti dell’Impero austro-ungarico che abbiamo lasciato per correttezza e che sono l’occasione per ricordare che il nostro centro studi, segnalando un articolo, non approva necessariamente tutte le idee o i giudizi dell’autore. Rimane la questione dell’onorificenza della repubblica italiana conferita a Tito e mai revocata (di cui non si parla nell’articolo). La vicenda si inserisce nel nuovo ordine nato dalla Rivoluzione, non solo quella bolscevica (che fu preceduta dalle “sorelle” inglese, americana e francese), che ha sovvertito l’antico ordine, basato sulla religione cattolica e le istituzioni confessionali. Lo stato italiano, che col preteso “risorgimento” ha seppellito (o infoibato) e rinnegato secoli di cristianità e spogliato il papato del suo potere temporale, asservendosi prima all’Inghilterra e poi agli Stati Uniti d’America, non è incoerente nel rendere omaggio a Tito, poichè il suo operato criminale nei confronti degli istriani, fiumani e dalmati fu approvato o comunque tollerato dai gangster di Londra e di Washington.
Josip Broz, in arte Tito
E’ stato un giovane storico fiumano, l’indimenticabile William Klinger, ad insegnarcelo: per capire il senso vero di quanto successo ai confini orientali d’Italia, a fine guerra, bisogna cambiare prospettiva, non quella delle vittime, ma quella dei criminali: gli uomini con la stella rossa con alle guida il compagno Tito.
Josip Broz nasce nel 1890 in un paesino nell’area di Zagabria da un padre croato (di professione fabbro) e da una madre slovena. Vede la luce da suddito austro ungarico e – secondo Klinger – saranno due le influenze asburgiche presenti nella sua vita: giocherà con le diverse nazionalità presenti nella Jugoslavia con la stessa spregiudicatezza e lo stesso cinismo dimostrata da Francesco Giuseppe con le nazionalità del suo Impero e, ancor più, perseguirà sempre l’obbiettivo di una sorta di Impero balcanico costruito attorno al Comunismo, così come quello asburgico era incentrato sulla Dinastia.
Allo scoppio del conflitto mondiale Josip Broz veste dunque la divisa austriaca e, nel ’15, viene fatto prigioniero sul fronte russo. Sarà appunto in Russia che vivrà la rivoluzione sovietica, ma di questa fase della sua vita si sa molto poco.
L’ipotesi più accreditata è quella di un suo inserimento nei Servizi sovietici (CEKA o KGB che fosse), certo è che egli conquista una posizione nel sistema staliniano, tanto che a fine guerra di Spagna è al compagno Josip Broz che viene dato l’incarico dal Comintern di gestire il rimpatrio dei reduci delle truppe rosse, dopo la sconfitta in Spagna, reduci delle Brigate popolari raccolti nel campo di Lione (sarà un ruolo che gli farà costruire una sua rete di relazioni internazionali di cui farà ampio uso in tempi futuri).
Operando, in una prima fase, dalla sua collocazione a Mosca e, successivamente, agendo direttamente in Jugoslavia, Josip Broz, negli anni ’30, assumerà progressivamente il controllo assoluto del variegato e conflittuale comunismo jugoslavo.
Operazione realizzata fondamentalmente con metodi da terrorismo e da servizi (assassinii, delazioni alla polizia e simili). Sempre con il pieno avallo di Stalin, di cui sarà costantemente il terminale di assoluta fiducia.
Due pseudonimi
E sempre Klinger a ricordarlo: è il 2 agosto 1934 quando a Vienna Josip Broz usa per la prima volta lo pseudonimo Tito.
Secondo Denis Kulijs (coautore con Klinger di «Tito segreto») il nome deriverebbe da una pistola automatica sovietica, come l’altro suo pseudonimo, «Walter», farebbe riferimento ad una pistola tedesca.
La pistola, comunque, è stata certo protagonista nella vita del compagno Josip Broz: sarà sempre presente sul suo comodino, fino alla sua morte.
Non sappiamo se era una Tito o una Walter, comunque era una pistola che accompagnava le sue notti.
In realtà il modus operandi di Josip Broz, all’interno del Regno Karageorgevic ed nello lotte interne al partito comunista, sarà sempre caratterizzata da una rigorosa applicazione della regole dei Servizi, quelle regole apprese disciplinatamente alla scuola di Mosca, regole riassumibili in poche parole: segretezza, violenza, terrore.
Ecco la guerra
Tito, comunque, si trova in Jugoslavia quando il 28 marzo 1941 il Regno dei Karageorgevic entra in guerra contro Italia e Germania (rompendo il Patto del Belvedere stipulato in paio di giorni prima).
Una guerra che ha un esito molto veloce: il 17 aprile lo sfascio degli Jugoslavi con conseguente sfascio di quella Jugoslavia: la Croazia da vita ad un nuovo stato e la Provincia autonoma di Lubiana entra a far parte dell’Italia.
Permane in realtà una guerra partigiana, contro i Tedeschi e gli Italiani, ad opera dei Serbi, guidati dai Cetnici del gen. Mihailovic.
E Tito? Ed i suoi militanti del partito comunista jugoslavo, di cui egli è leader e guida? Loro stanno alla finestra, per una ragione molto chiara e precisa. I Comunisti , di tutto il mondo, siano essi Francesi o Italiani o Jugoslavi, si asterranno da qualsiasi presa di posizione contro la Germania finchè alleata dell’URSS.
La situazione cambierà solo quando il 22 giugno la Germania attaccherà l’Unione Sovietica, dando inizio all’Operazione Barbarossa.
Milovan Djlas, nel suo lavoro «La guerra rivoluzionaria», riferisce che il giorno stesso della notizia dell’attacco tedesco Tito stende l’appello alla guerra contro la Germania e l’Italia, appello che – previa approvazione di Stalin – verrà diffuso a tutti i militanti.
La linea ufficiale è quella della «Guerra di Liberazione», affiancando cioè i partigiani cetnici, la sostanza vera però resta quella della «Guerra Rivoluzionaria», per dare vita alla fine ad una Jugoslavia comunista.
Sempre Djlas riferisce, nel suo «Le conversazioni con Stalin», che Stalin raccomanda a Tito di mimetizzare la finalità «rivoluzionaria» fino a quando non avrà ricevuto l’investitura da parte di Churchill. Suggerisce perfino di togliere le stelle rosse per non spaventare gli Inglesi, ma Tito osserva che ormai a quel simbolo i suoi uomini sono troppo legati.
Gli uomini di Tito scendono comunque in campo e lo fanno con indubbia efficacia, se è vero che, per il governo di Londra, sarà giusto sul finire del ’43 assegnare proprio a Tito la guida della guerra in Jugoslavia proprio perchè i suoi uomini «ammazzano» molto di più i Tedeschi e gli Italiani rispetto agli alleati concorrenti, i Serbi Cetnici del monarchico gen. Mihailovic.
Solo dopo l’investitura di Londra farà quindi seguito anche quella di Stalin ed a quel punto Tito risulta guida unica in quella sanguinosa guerra balcanica che, segnata da notevoli massacri, porterà nella primavera del ’45 alla vittoria.
Sarà coronata dall’arrivo degli uomini con la stella rossa alla conquista di Trieste il 1° maggio 1945.
Il terrore rivoluzionario
La guerra nei Balcani è stata sicuramente molto sanguinosa.
I dati raccolti da fonti americane (come già ricordato) parlano di quasi due milioni di morti e attribuiscono il cinquanta per cento di questa ecatombe agli uomini di Tito (è la conferma del giudizio di Churchill sui Comunisti di Tito che ammazzavano molto di più).
Di certo l’intreccio di conflitti politici, etnici, religiosi presenti in quest’area favorisce queste esplosioni di crudeltà. Lo si è visto anche nell’ultima guerra balcanica, quella che ha accompagnato la dissoluzione della Jugoslavia dopo il 1991.
Resta comunque un dato indiscutibile: il modus operandi degli uomini di Tito nella loro guerra rivoluzionaria sicuramente si è caratterizzato per quella strategia del terrore che, dai tempi e dagli insegnamenti di Lenin, accompagna sempre la nascita di uno stato comunista. Ancora William Klinger ha analizzato le procedure seguite da Tito: conquistato un territorio la prima a dover intervenire era l’OZNA, vale a dire i Servizi che avevano appunto il compito di far piazza pulita del «nemici del popolo», poi arrivavano le strutture del partito, quelle militari e, da ultimo, quelle amministrative.
Gli Italiani tutto ciò lo hanno sperimentato, dopo 1’8 settembre ’43. Allo sfaldarsi dell’esercito italiano ha infatti fatto seguito il controllo dell’Istria interna (la zona di Pisino) da parte dei partigiani di Tito. Immediatamente è scattato il terrore e sono comparsi gli infoibamenti. Rientra proprio in questa fase la tragica vicenda di Norma Cossetto, la studentessa poco più che ventenne, catturata dai partigiani dell’OZNA, violentata ripetutamente e poi infoibata, rea di essersi rifiutata di entrare tra le file partigiane e quindi, perciò stesso, «nemica del popolo», meritevole di quella tragica fine.
La guerra è finita?
Abbiamo parlato della violenza, del terrore, degli eccidi nel corso della guerra, ma con la fine del conflitto, con la conclusione della «corsa per Trieste», con il 1 maggio 1945 è finito tutto questo? No di certo, ha appena inizio la fase organica, sistematica della sparizioni, degli infoibamenti, degli annegamenti, con una pietra al collo.
Il tutto sempre con la gestione degli uomini dell’OZNA. Anche perchè in tale situazione è l’OZNA e solo l’OZNA ad avere l’esclusivi diritto di gestire la violenza e il terrore. A nessun altro, certo non a iniziative di tipo personale.
Quando, dopo la fine del Comunismo, è stato possibile accedere agli archivi sloveni, lo storico Roberto Spazzali ha ritrovato a Lubiana gli elenchi dei «nemici del popolo» che andavano eliminati nel maggio ’45. E nei quaranta giorni di occupazione titina della città di San Giusto saranno migliaia le persone prelevate dalle proprie abitazioni per non più ritornarvi.
Nella Foiba di Basovizza, con una tragica contabilità basata sullo spazio occupato dai cadaveri, si sono quantificate almeno 4000 vittime (pari a 500 mq).
Ma chi erano queste vittime? Certo potevano esserci esponenti fascisti (anche se i più si erano allontanati prima dell’arrivo dei Titini), ma c’erano anche gli uomini del CLN ed esponenti politici antifascisti, ma non comunisti, c’erano anche coloro che, a vario titolo, rappresentavano lo Stato (finanzieri, carabinieri, poliziotti, ma anche postini, dipendenti comunali), c’erano borghesi, professionisti e così via. C’erano sopratutto tante, tante persone che niente avevano acchè fare con la politica.
Perchè la triste logica del terrore è una sola: nessuno deve sentirsi al sicuro, tutti devono percepire la presenza dei «poteri popolari» che posso prelevare chiunque «per dei controlli» per poi far sparire per sempre.
Tutto rigorosamente logico e coerente
Va ribadito: parliamo di eccidi avvenuti a guerra finita, ma quale guerra? Quella «di liberazione» contro il nazifascisti, ma non certo la guerra rivoluzionaria, quella che doveva portare alla nascita della nuova Jugoslavia del comunismo. Per raggiungere questo obbiettivo, lo stato comunista occorreva seminare a piena mani il «terrore rivoluzionario», occorreva far sì che chiunque temesse di trovarsi qualificato come «nemico del popolo», il tutto perchè questa è la logica perversa per l’affermarsi di una rivoluzione.
Mao Tse Tung, che di rivoluzioni se ne intendeva (come Lenin, come Tito anche lui edificò una stato comunista con la rivoluzione) ebbe a dichiarare «la rivoluzione non è un pranzo di gala». Gli eccidi degli uomini con la stella rossa ne avevano data la prova tragica e drammatica.
Il tutto, va sottolineato, a guerra finita, quando vennero infoibati o comunque trucidati migliaia e migliaia di Italiani (certo oltre diecimila). Ma, sempre a guerra finita, vennero trucidati decine di migliaia di Sloveni e centinaia di migliaia di Croati.
E’ attualmente continuo, in queste due Repubbliche, il ritrovamento di fosse comuni, foibe o grotte, con centinaia e centinaia di cadaveri.
Le Repubbliche di Slovenia e di Croazia hanno istituiti degli organi pubblici preposti proprio alla ricerca di questi tragici siti. Lo stanno facendo ora, negli anni ’20 del duemila, perchè in passato, fino a chè c’era il Comunismo, l’argomento era rigorosamente tabù.
La fine del terrore?
E sempre Djlas a documentarlo: nel ’47 in una riunione dei supremi organi del partito, a seguito delle lamentele slovene per il numero di fosse comuni che intralciavano i lavori agricoli, Tito diede disposizioni di porre termine all’eliminazione dei «nemici del popolo» senza processo alcuno.
Il terrore rivoluzionario era finito? Non per molto. Quando, sempre nel’47, ci sarà la rottura tra Tito e Stalin, quando quest’ultimo decreterà l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform perchè rea di eccesso rivoluzionarismo, in quel momento scatterà un nuovo conflitto: la guerra tra Cominformisti e Titoisti.
Una guerra combattuta tutta tra Servizi: il KGB per Stalin, l’UBDA (erede dell’OZNA) per Tito.
Sarà una guerra nella quale Tito rimetterà in funzione tutto il suo sistema di terrore, simboleggiato tristemente del famoso lager dell’Isola Calva-Goli Otok dove finirono a centinaia gli accusati o sospettati di stalinismo.
Il conflitto avrà una conclusione con la morte di Stalin, nel marzo del ’53, ma conterà un numero ancora non quantificato di vittime.
Un ultimo colpo di coda del sistema terroristico di Tito lo si avrà negli anni ’70, quando le richieste di libertà e di democrazia degli studenti e dei professori dell’università di Zagabria trovarono una repressione pesantissima, con decine, centinaia di carcerazioni.
Una vicenda pressocchè ignorata dalla pubblica opinione occidentale. Ne ha dato sofferta testimonianza Gabriella Chmet nel suo «La primavera di Zagabria» (Luglio Editore, 2022), una testimonianza veramente imperdibile.
Sarà l’ultimo exploit del terrorismo titoista, perchè il 4 maggio 1980 Josip Broz esalerà l’ultimo respiro e la pistola potrà così lasciare il suo comodino.
Fonte: Lega Nazionale – Anno XX – numero 72 – Settembre 2023, estratto dell’articolo “Le Foibe, l’esodo e la menzogna”, di Paolo Sardos Albertini, pp.7 – 10 https://www.leganazionale.it/