2022 Comunicati  21 / 04 / 2022

Cavour e l’accanimento contro la San Vincenzo e i cattolici liguri e piemontesi

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 39/22 del 21 aprile 2022, Sant’Anselmo

Cavour e l’accanimento contro la San Vincenzo e i cattolici liguri e piemontesi. Li consideravano ostili…

di Roberto Gremmo – Facevano la carità ai poveri ed i fanatici dell’Italia unita li consideravano dei pericolosi cospiratori. Nel Piemonte che si preparava alle avventure risorgimentali i cristiani della “Società di San Vincenzo de’ Paoli” non avevano vita facile ed erano tenuti d’occhio dalla polizia di Cavour.

Fra le carte riservate del “Ministero degli Interni” sabaudo di quegli anni spuntano le relazioni (va da sé, inedite e dimenticate se non proprio nascoste) che descrivono i cattolici dediti alla carità ai più poveri come individui sospetti ed infidi.

A leggere oggi questi documenti non si sa se sorridere per la stupidità atavica del sistema o se allarmarsi per la radicata volontà di controllo delle idee da parte del potenti.

In ogni caso, c’è solo da vergognarsi pensando che è su queste basi di spionaggio diffuso ed occhiuto che s’è fatta l’Italia unita.

L’allarme venne lanciato il 28 febbraio del 1859 dal ministero degli Interni che chiese al comandante dei carabinieri di verificare gli scopi ed i reali obiettivi della “società politico religiosa designata col titolo di S. Vincenzo de’ Paoli” che stava “divisando vastamente nello Stato le sue fila specialmente fra il ceto del Clero patrizio”, specialmente a Genova, Savona, nell’Alessandrino ed a Broni, la cittadina dell’Oltre Po oggi diventata arbitrariamente ‘lombarda’ ma allora appartenente ai “Dominii di Terraferma” dei Savoia.

Le prime indagini partirono da Savona e dettero buon esito. Stando alle comunicazioni dell’intendente generale Urbani, la “Società di San Vincenzo” risultava costituita a Finalpia, Pietra Ligure e Finalborgo dove “elesse a suo Presidente il Causidico Marciano Domenico, a segretario il Canonico Bosio ed a Tesoriere il Sig. Bolla”. I soci si riunivano ogni settimana ed a norma di statuto rogato dal notaio Bozzini di Finalmarina, “si stabiliva che nelle radunanze tanto ordinarie quanto straordinarie non si [sarebbe parlato] di politica”.

Tutto a posto.

Più delicata la situazione in Sardegna, dove il foglio risorgimentalista “Epoca” aveva pubblicamente chiesto alla “San Vincenzo” di dar conto di quelle che riteneva le sue “misteriose aspirazioni”.

Tirati per i capelli in una polemica pretestuosa, gli uomini della società avevano risposto indirettamente dando “pubblicità ai (loro) atti ed alle [loro] buone opere facendo stampare il resoconto della beneficienza, e dei proventi riscossi nell’esercizio 1856”, dimostrando di occuparsi solo di carità per i poveri ed i bisognosi.

La situazione era invece da tener d’occhio nelle altre zone, come spiegava una dettagliata relazione dello Stato Maggiore dei Carabinieri.

Infatti, risultava che in diverse località erano state costituite sotto l’insegna della San Vincenzo organizzazioni considerate, a tutto tondo, “società segrete politico-religiose”, poiché i loro membri avrebbero voluto “creare imbarazzi al Governo e di influenzare nelle elezioni”, trafficando subdolamente col pretesto di “soccorrere l’indigenza”.

In particolare, questi pericolosi individui si sarebbero incontrati a Genova, nelle canoniche di Carignano e di San Matteo, guidati dal marchese Brignole e dal deputato Bisio che, aiutato dalla moglie e dai figli, avrebbe tenuto stretti contatti con “la maggior parte de’ parroci della città e suburbii”.

Ma l’associazione avrebbe ottenuto il maggior successo fra i contadini ed alla miope polizia sabauda non passava neanche per la testa l’idea che se la San Vincenzo trovava consenso fra i più poveri era soprattutto perché li aiutava davvero a sopravvivere.

Preoccupava soprattutto il fatto che “nelle campagne, col mezzo più particolarmente dei preti, si cercava d’insinuare ai soldati delle classi licenziate di non rispondere alla chiamata alle armi” e questo era davvero un delitto, poche settimane prima delle spedizioni militari che Cavour stava programmando assieme ai francesi per impossessarsi della ricca Lombardia.

Ma la situazione era davvero delicata a Broni, dove la società aveva messo radici ma poi era stata sciolta, perché da parte di feroci mangia-preti “non mancarono dimostrazioni per disapprovarla e si tema quella di veder strappata alla prima riunione della milizia nazionale la bandiera dall’ufficiale porta insegna conosciuto per aggregato alla Società”.

Nella cittadina dell’Oltre Po, la San Vincenzo era stata creata nel 1858 da un emissario spedito da Genova dal deputato Bisio, l’“agente attivissimo” cavalier Rocco Bianchi che aveva trovato subito l’aiuto dell’arciprete Giuseppe Galanti, di don Luigi Grassi, don Alessandro Salciola e dei canonici don Vecchi e don Bardotti.

Tesoriere dell’associazione era stato nominato Giovanni Pietro Riccadonna ed aveva fra i più cospicui soci alcuni membri della famiglia dell’avvocato Magga affiancati dal negoziante di vino Stoppini e dal commerciante di stoffe Saviotti.

L’attività della San Vincenzo sembrava avviarsi pacificamente e “Per qualche tempo la cosa passò inavvertita”, ma poi fra i ‘patrioti’ cavourriani ed italianisti sorse, non si sa quanto giustificato, “il sospetto che ivi trattare si fossero cose ostili al Governo, massimamente che taluno degli ascritti si vantava dicendo “noi abbiamo il potere, noi abbiamo la spada d’oro”.

Una diceria tirò l’altra e così, la sera del 18 febbraio 1859 Broni venne scossa da un’accesa manifestazione anticlericale ed “una frotta di persone si portò sotto le finestre del parroco e si pose a gridare: “abbasso i Paolotti, Viva Vittorio Emanuele”.

Nel tentativo di calmare gli animi, il giorno seguente l’arciprete Galanti e gli altri sacerdoti dichiararono che l’associazione era stata sciolta.

Non servì a nulla, perché “gli avversari non vi cred[ettero] ed anzi il loro accanimento [andò] sempre aumentando” minacciando alla prima occasione di strappare di mano il gonfalone della milizia comunale all’ufficiale porta-insegne, un brav’uomo, purtroppo per lui “conosciuto per Paolotto sfegatato”.

Soltanto il pronto intervento dei carabinieri, chiamati con insistenza dal sindaco, riuscì a calmare gli animi, ma la Società di San Vincenzo di Broni dovette cessare ogni attività, costretta a piegarsi alla violenza di chi si riempiva la bocca di fraternità e libertà ma non rispettava le idee degli altri.

Oltre tutto, agli occhi dei borghesi che si preparavano alla grande abbuffata speculativa dell’Italia unita, i membri della San Vincenzo avevano una colpa imperdonabile perché, come sottolineò lo stesso comandante dei carabinieri nel suo rapporto, non solo raccoglievano offerte per i derelitti ma “ammett[eva]no il povero come il ricco”.

E mentre stavano per partire le guerre sabaudiste la fraternità cristiana era davvero fuori posto.

Erano invece all’ordine del giorno le violenze e gli abusi e quello di Broni non fu davvero un caso isolato.

Nel Biellese all’inizio d’autunno del 1860 un anonimo delatore denunciò come nemici della Patria due ingenui sacerdoti che s’erano permessi di criticare la politica annessionista di Vittorio Emanuele II proprio mentre i soldati italiani invadevano l’Umbria e le Marche.

Don Aimone e don Gnotta, parroco il primo e maestro di scuola l’altro, entrambi di Brusnengo, non sospettavano certo di far del male dicendo quello che tanti pensavano e cioè “aver il nostro Governo fatto male inviando i suoi soldati nelle Romagne” ed aggiungendo per sopramercato che “i nostri soldati sono tanti birboni”, spediti a violare impunemente gli antichi territori del Papa.

I due preti s’erano espressi liberamente parlando a tavola con alcuni amici ed invece uno di questi andò a denunciarli, non senza aver prima spinto alcuni popolani a far chiasso contro la canonica di Brusnengo, per protestare contro frasi ritenute oltraggiose per l’esercito e la Patria.

I facinorosi vennero calmati dal buonsenso del giudice di Masserano che offrì loro una buona bottiglia, facendo sbollire gli ardenti spiriti ‘patriottici’. Ma i due preti dovettero subire un processo, finito per fortuna con l’archiviazione della denuncia.

Se l’era cavata per un soffio anche don Giacomo Nigro finito il 12 settembre 1853 di fronte alla Corte d’Appello di Torino con l’accusa di avere “con pubblici discorsi cercato nell’estate del mille ottocento cinquanta due di eccitare nella popolazione di Sparone lo sprezzo ed il malcontento contro il Governo” per le sue critiche al progetto di legge per il matrimonio civile che scardinava le basi dell’equilibrio fra diritto, potere politico e religioso.

Per aver espresso semplicemente le proprie opinioni, il povero prete venne condannato a due mesi di galera e si salvò solo perché venne assolto tre anni dopo in seconda istanza anche se per mesi visse col batticuore, a causa d’una spregevole delazione politica.

Come quelle contro la San Vincenzo, i pacifici benefattori di Broni, i contadini che non amavano le guerre.

Tutti travolti dalla follìa guerrafondaia.

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