Don Bonifacio, vittima dei comunisti titini
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova
Comunicato n. 14/22 del 4 febbraio 2022, Sant’Andrea Corsini
Don Bonifacio, vittima dei comunisti titini
Biografia di don Francesco Bonifacio (Pirano, 7 settembre 1912 – 11 ? settembre 1946)
Francesco nasce a Pirano il 7 settembre 1912 da Giovanni Bonifacio e Luigia Busdon. È secondogenito di sette tra fratelli e sorelle. La famiglia, semplice e povera, vive in decorosa modestia, in intensa laboriosità e in sereno abbandono al Signore. La chiesa di San Francesco, officiata dai frati francescani conventuali, è il centro della loro vita religiosa.
Qui Francesco viene preparato ai sacramenti ed è chierichetto assiduo ed esemplare. D’estate, durante le vacanze, frequenta l’oratorio Domenico Savio detto «I salesiani» e il circolo San Giorgio, prima come aspirante e poi come effettivo di Azione cattolica. La confessione settimanale e la comunione quotidiana ritmano la sua vita. Avverte così fin da piccolo la vocazione al sacerdozio. Incoraggiato dal parroco monsignor Giorgio Maraspin, entra nel seminario interdiocesano minore di Capodistria nel 1924.
La sua vita di seminarista è caratterizzata da obbedienza ai superiori, rispetto, ma anche riservatezza con i condiscepoli, disponibilità ad aiutare tutti, apertura all’amicizia.
Nel 1932, compiuti gli studi ginnasio-liceali a Capodistria, frequenta il seminario teologico centrale di Gorizia. Trascorre poi parte degli ultimi anni del quadriennio teologico a Capodistria, come prefetto di disciplina, ma in sostanza come amico di tanti giovani.
Monsignor Carlo Magotti, arcivescovo di Gorizia e amministratore apostolico di Trieste e Capodistria, gli conferisce il 27 dicembre 1936, nella cattedrale di San Giusto, l’ordine sacerdotale. Il 3 gennaio 1937, percorsa Carrara di Raspo addobbata a festa e invasa dalla popolazione, si reca nel duomo di San Giorgio di Pirano dove celebra la sua prima messa solenne.
Il suo primo breve incarico pastorale si svolge nella stessa Pirano. Quanti lo conoscono notano in lui, dopo l’ordinazione, quasi una trasformazione fisica che suscita richiamo ed esercita fascino.
L’1 aprile 1937 viene nominato da monsignor Margotti sussidiario capitolare, vicario corale e cooperatore a Cittanova, dove rimane circa due anni. Si inserisce rapidamente nella vita cittadina. Il suo impegno pastorale si svolge nella chiesa, nell’insegnamento del catechismo, nel contatto con i giovani (Azione cattolica giovanile, filodrammatica, attività ricreative), nei rapporti con la gente comune (pescatori, agricoltori, anziani, ammalati, poveri).
Il suo trasferimento nel 1939 è un duro «calvario» per lui, per i giovani e per la gente. L’1 luglio, infatti, viene nominato, da monsignor Antonio Santin vescovo di Trieste e Capodistria, cappellano esposto nella curazia di Villa Gardossi.
La curazia conta circa 1300 anime, è costituita da tante piccole frazioni o casolari sparsi su di un territorio collinare tra Buie e Grisignana, disteso a semicerchio sui tre crinali che dal monte Cavruie degradano fino a Baredine, Punta e Luzzari. Qui don Francesco si stabilisce con la mamma, il fratello Giovanni, la sorella Romana e, temporaneamente d’estate, la nipote Luciana Fonda.
Il suo impegno pastorale si estende sistematicamente a tutta la realtà parrocchiale. A piedi (talvolta in bicicletta), ogni pomeriggio, raggiunge le frazioni più lontane e i casolari più remoti. Insegna la dottrina a gruppi di bambini nei luoghi più isolati, nei cortili, nelle aie, nelle cucine coloniche. Visita le case dei poveri, portando qualche aiuto sottratto perfino al modesto desco familiare; bussa con il bastone alle porte degli anziani e degli ammalati, chiede notizie dei sofferenti. La sua parola disadorna, semplice ma efficace, piace alla gente.
Mantiene contatti costanti, fin che le condizioni ambientali lo consentono, con il vescovo. Coltiva i rapporti anche con i confratelli preti delle parrocchie vicine di Buie, Cittanova, di Grisignana, di Veteneglio e di Villanova di Quieto. Ogni sabato e vigilia di festività, con qualunque tempo, si reca a Buie per confessare.
La guerra, scarsamente avvertita prima, investe l’Istria a partire dal 1943. Dopo l’insurrezione popolare, caotica e sanguinosa, seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo la l’occupazione dell’Istria da parte dei tedeschi, Villa Gardossi, con le sue case sparse sulle colline boscose, diventa un rifugio ideale per i partigiani e quindi luogo privilegiato di scontro fra le parti contendenti. La popolazione civile si trova stretta fra il movimento popolare di liberazione slavo (O.F. cioè Osvobodilna Fronta) da un alto e i tedeschi con le forze collaborazioniste (della Rsi, ndr) dall’altro (piccole guarnigioni locali e la cosiddetta «stazione X» a Buie).
Don Francesco affronta con coraggio e determinazione la difficile e pericolosa situazione che si è creata. Si prodiga per soccorrere tutti (italiani e slavi), si interpone tra le parti in lotta per aiutare amici e nemici, per impedire esecuzioni sommarie, per dare sepoltura cristiana a quanti sono vittime dell’odio e delle vendette più feroci, per difendere le case e le proprietà dai saccheggi e dalla distruzione, per ospitare, a rischio della vita, fuggiaschi e sbandati.
Finita la guerra ufficiale, tornano a casa i superstiti dei campi di prigionia e dei vari fronti, ma inizia l’epoca delle vendette e degli odi etnico-nazionali. Le foibe diventano permanente, macabra e terrorizzante minaccia. Si profila l’incubo dell’esilio forzato. Iniziano gli anni difficili dell’insediamento dell’amministrazione jugoslava con l’acquisizione e l’applicazione teorico-pratica del comunismo sovietico contro la religione, la chiesa, i sacerdoti e i fedeli.
La propaganda antireligiosa e materialista in Istria viene sostenuta e diffusa a ogni livello; gli atti antireligiosi e le limitazioni alla pratica religiosa sono innumerevoli. Essi raggiungono il culmine con l’aggressione e il ferimento del vescovo monsignor Santin, di altri sacerdoti e con l’uccisione di Miro Bulešić a Lanischie nel 1947.
Con l’occupazione slavo-titina anche la vita di Villa Gardossi muta radicalmente. Le autorità popolari, attivamente fiancheggiate anche da alcuni paesani, costituiscono comitati popolari, organizzano conferenze e comizi ideologicamente caratterizzati, intimidiscono quanti si dimostrano circospetti o incerti rispetto alla nuova realtà: controllano la società paesana attraverso una rete di informatori, riservano sinistre e minacciose attenzioni a don Francesco e ai fedeli, cercano di coinvolgerlo nell’appoggio alle liste di proscrizione dei presunti «criminali fascisti» e ai disegni annessionistici jugoslavi, frappongono crescenti difficoltà al libero esercizio del ministero sacerdotale.
Don Francesco avverte con chiarezza la mutata situazione, ma riprende con nuovo vigore la sua paziente e saggia opera pastorale. Quanto più si vede impacciato o impedito nell’esercizio del suo ministero, tanto più si prodiga per escogitare nuove formule organizzative e modalità operative: organizza gli incontri catechestici di casa in casa, riunendo più famiglie; convoca le riunioni formative dell’Azione cattolica in chiesa, lasciando le porte ben spalancate perché tutti possano vedere e udire.
La predicazione di don Bonifacio, sempre controllata ed equilibrata, con scarni e labili riferimenti a situazioni e personaggi concreti, ma non astratta e generica, consente di cogliere alcuni aspetti salienti della vita socio-politica del momento e precisi segnali di un tragico e imminente futuro. La sua fermezza, la sua dedizione, il suo prestigio, la sua capacità di leadership (riesce a «polarizzare intorno a sé tutta la popolazione»; la gioventù del paese «non segue la propaganda di ateismo e le iniziative del regime» ma «è con lui») sono avvertiti con disappunto dalle autorità popolari. Egli è a tutti gli effetti un prete «scomodo», un pastore dal grande ascendente spirituale, un supposto oppositore («difende coraggiosamente la fede della sua gente dall’ateismo che vogliono imporre») e «un ostacolo» intollerabile al progresso dell’ideologia comunista da eliminare. Di lui si parla spesso nelle riunioni del partito comunista e fra gli attivisti. L’OZNA del Buiese, infine, decide di procedere al suo arresto e a quello dei parroci di Grisignana e di Villanova del Quieto.
Don Francesco, avvertito del grave pericolo incombente e consapevole della gravità della situazione, ne parla con i suoi confratelli preti («mi stanno spiando»; «qualche cosa di male può accadermi») e al vescovo monsignor Santin a Trieste («i capi comunisti mi fanno difficoltà e mi minacciano»). Egli, tuttavia, consapevole di avere aiutato in ciò che poteva tutti, di non aver fatto nulla di male, ma solo il suo dovere, e di non avere conseguentemente nessun motivo di temere, sceglie di rimanere al suo posto perché «mai avrebbe abbandonato» i suoi fedeli ma «sarebbe morto in mezzo a loro» come un martire. La testimonianza cristiana, per don Francesco, è radicale e prevede anche la reale prospettiva del martirio «se sarà necessario».
L’11 settembre 1946 don Francesco, dopo un breve riposo pomeridiano, imbocca a piedi la «strada regia». Alle sedici si ferma a Peroi per ordinare la legna per la casa e poi prosegue verso Grisignana per la confessione. L’incontro con don Giuseppe Rocco dura alcune ore. Gli parla della difficoltà della sua curazia, della necessità di restar fedele al ministero, di accostarsi regolarmente alla confessione, di affidarsi al direttore spirituale, di seguire i consigli dell’Unione apostolica del clero.
Dopo una breve sosta in chiesa, don Rocco propone al confratello di pernottare a Grisignana; al suo diniego lo accompagna fino al cimitero di San Vito. Qui, separandosi, vedono alcune guardie popolari che escono dal cimitero. Don Rocco «raccomanda (al confratello) di andare presto a casa». Egli scegli la strada più breve per Villa Gardossi e arriva a Radani. Qui, come confermato da parecchi testimoni, viene avvicinato e fermato da due o quattro guardie popolari o soldati della polizia jugoslava. Poi, tutti assieme, dopo un «parlare concitato», si allontanano e spariscono nel bosco. Alcuni paesani che tentano di avvicinarsi al gruppetto vengono «cacciati via e minacciati». Le guardie che arrestano don Francesco sono conosciute e riconosciute dai paesani in base alla convergente testimonianza di parecchie persone.
L’11 settembre sera, non vedendolo rientrare, i familiari cominciano ad allarmarsi. Il fratello Giovanni con altri compaesani rifà il percorso verso Grisignana per rintracciare il prete e soccorrerlo nel caso di bisogno. All’avanzare dell’oscurità, le ricerche vengono sospese. Il 12 settembre mattina la notizia del fermo si diffonde rapidamente in paese, e viene confermata da più parti. Il fratello Giovanni, insieme a un amico, si reca prima al comando della polizia di Grisignana e poi a Peroi dalla sorella di una delle guardie riconosciute dai testimoni, ottenendo però solo risposte vaghe, reticenti e contraddittorie.
Nel frattempo si continuano le ricerche ispezionando i boschi della zona senza trovare alcuna traccia utile. Il 13 settembre Rocco Fonda, cognato di don Francesco, si reca dl comando della difesa popolare di Buie ottenendo ancora risposte evasive. Il 14 settembre il fratello Giovanni interpella il comando dell’OZNA di Buie senza alcun risultato, ma venendo arrestato per falso e trattenuto in carcere per tre giorni. La mamma Luigia rimane ancora un anno a Villa Gardossi, continuando le ricerche del figlio, anche al tribunale del popolo di Albona, ma senza risultato. Poi, con gli altri familiari, si trasferisce a Trieste.
In paese, intanto, si diffonde il terrore e l’intimidazione. Nessuno parla più della questione. Ancora negli anni Settanta è pericoloso occuparsi del caso Bonifacio.
Don Francesco scompare l’11 settembre 1946 e della sua morte, sicuramente violenta, non si conosce nessun particolare certo, ma solo notizie parziali, reticenti o contraddittorie. Egli sarebbe stato ucciso la notte stessa dell’arresto, attraverso modalità incerte. Anche il destino del cadavere sarebbe incerto: cremazione, infoibamento (qualche voragine della zona, foiba di Martines a Grisignana, foiba di Pisino), sepoltura.
Don Francesco, uomo mite e pacifico, «alieno da qualsiasi manifestazione di parzialità per ragioni nazionalistiche», sociali o politiche, «paga per tutti l’odio a Dio e «alla chiesa», viene ucciso «esclusivamente per il fatto di essere un sacerdote molto zelante nel suo ministero», «trova la morte solo nell’odio che i comunisti hanno verso il prete come tale». Egli è un autentico martire ucciso, vittima di odio efferato, per la fede». Il suo è «un martirio autentico in odium fidei».
Il 21 febbraio 1957 la sacra Congregazione dei Riti autorizza il vescovo di Trieste monsignor Antonio Santin a istruire il processo per la beatificazione di don Francesco Bonifacio. (…) Nella cripta del santuario Maria Madre e Regina di Monte Grisa (Trieste), il vescovo Santin dettava questa lapide: Presso questo altare che Pirano / erige in onore del suo patrono, / arda come fiamma / la memoria del suo giovane sacerdote / Francesco Bonifacio / trucidato l’11 settembre 1946 / in odio a Dio e al suo sacerdozio santo.
I triestini e gli istriani (segnatamente i cittanovesi, i piranesi e gli abitanti di Villa Gardossi-Crassizza) ricordano annualmente con ammirazione don Bonifacio, nell’anniversario del suo martirio, attraverso cerimonie religiose e manifestazioni civili.